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Verso gli altari

Padre Vismara, “patriarca della Birmania” per oltre 60 anni

Nella parrocchia di origine del missionario del Pime è stato costituito un comitato per presentare la sua figura alla comunità e in particolare i giovani. Una parrocchiana: «Uomo di fede e di preghiera. Non ha mai rifiutato nessuno»

di Luisa BOVE

17 Febbraio 2011

«A voler bene al Signore non ci si perde», diceva spesso padre Clemente Vismara, il missionario del Pime che ha trascorso in Birmania oltre 60 anni della sua vita. Ma c’è un’altra espressione che i parrocchiani di Agrate Brianza, la sua comunità di origine, ha imparato a memoria e ripete spesso anche ai giovani: «La vita è bella solo se la si dona, se la si logora nel fare del bene; non è che tutto il resto sia insignificante, ma insomma non è il centro del nostro vivere, non appaga. Fare la volontà di Dio è cooperare al nostro bene quaggiù e lassù». «Padre Clemente ha ricevuto il centuplo quaggiù – dice Rita Gervasoni – e oggi potrebbe ricevere anche un riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa se sarà beatificato, come speriamo». Intanto in parrocchia si è costituito un comitato.

Ma come vi state preparando a questo eventuale evento?
Stiamo cercando di coinvolgere al massimo la comunità e in Quaresima avremo occasioni di preghiera e di presentazione della figura di padre Clemente, anche se è molto conosciuta ad Agrate perché ha sempre mantenuto i contatti con noi. Vogliamo raggiungere i vari settori della comunità, dai giovani agli adulti, in particolare stiamo preparando con i giovani un recital su padre Clemente che forse andrà in scena in ottobre.

Il missionario ha servito la Chiesa, i poveri e in particolare i bambini. Che cosa significa per voi questo esempio di dedizione?
È straordinario come padre Clemente ha gestito la situazione, ma colpisce soprattutto il suo atteggiamento di grande fiducia e speranza nella Provvidenza che l’ha aiutato nella sua vita. Era un uomo di fede e di preghiera. Non ha mai rifiutato nessuno, neanche durante la seconda guerra mondiale quando in quella zona non ricevevano più aiuti e alcuni missionari chiudevano la missione. Lui invece è rimasto al suo posto e si è prodigato accettando anche chi arrivava da altri orfanotrofi. Oggi si parla tanto di educazione di ragazzi e giovani, ma padre Clemente oltre a offrire la possibilità di uno studio di base, preparava un futuro: insegnava il lavoro, creando orti, coltivazione di fiori e allevamenti.

E di carattere com’era?
I tratti più significativi sono la sua serenità e la gioia, che è rimasta impressa ancora oggi in molti birmani, che lo chiamavano “il prete che sorride sempre”. Anche nelle difficoltà gli chiedevano:“Ma come fai ad essere sempre contento?”. E lui rispondeva: “Sono sicuro che a guidarmi c’è un Padre”. Molti si meravigliavano che accogliesse i diseredati e gli domandavano: “Perché ti affanni ad accogliere queste persone? Sprechi tempo e denaro, non ricaverai mai nulla”. Ma anni dopo padre Clemente dirà: “Avevano torto perché io da questi rifiuti ho ricavato uomini e delle donne che oggi sono in grado di vivere la loro vita con serenità e non più nella schiavitù”. Da questi ragazzi sono nate anche tante vocazioni di sacerdoti e suore. Dal ’66, da quando cioè sono stati espulsi i missionari stranieri, in Birmania non è più entrato un sacerdote, potevano rimanere solo quelli arrivati prima dell’indipendenza (1948). Per questo la Chiesa birmana vive con il clero locale e l’anno prossimo festeggerà il centenario di fondazione, ma è molto significativo che 65 di questi 100 anni siano stati percorsi da padre Clemente.

Padre Vismara è partito per la missione a soli 26 anni: una scelta radicale che può dire ancora qualcosa ai giovani di oggi?
Certamente, soprattutto per la fedeltà alla vocazione. È una figura simpatica e può piacere anche ai giovani, inoltre i suoi scritti sono molto attuali e io oso dire che non sono databili. Padre Clemente diceva: “In questa vocazione io ho vinto il terno al lotto”. Era felice ed è rimasto fedele fino all’ultimo. A una certa età avrebbe potuto rientrare in Italia, ma diceva: “Io voglio morire qui”. E così è stato.

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