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Giacomo Manzù, un itinerario milanese nel centenario della nascita

La metropoli ambrosiana fu teatro della sua affermazione come uno dei più grandi artisti italiani del Novecento. I suoi capolavori dalla Cattolica all'Abbazia di Chiaravalle.

19 Dicembre 2008

19/12/2008

di Luca FRIGERIO

Venne al mondo tre giorni prima di Natale, cent’anni fa, nel 1908: Giacomo Manzoni, Manzù in dialetto e per il mondo intero, uno dei più grandi scultori del Novecento, e non solo italiano. Per l’originalità delle sue opere, la forza espressiva dei suoi ritratti, la sacralità vera, autentica, di tanti suoi lavori religiosi. Capace di cogliere l’essenza della tradizione, rielaborandola in forme nuove, moderne, vibranti.

Oggi, nel centenario, Manzù viene ricordato con mostre e iniziative nella natia Bergamo, mentre a Roma e in Vaticano sono concentrati la maggior parte dei suoi capolavori. Eppure un “itinerario manzuniano”, seppur nascosto, quasi “inedito”, è possibile anche a Milano, città che fu così importante all’artista per lunghi decenni.

Proprio il capoluogo lombardo, infatti, fu teatro della sua rivelazione. Giacomo vi giunse a 22 anni, con pochi soldi in tasca, come poteva averne il dodicesimo figlio di un ciabattino e sacrestano. Alle spalle, lui che sarebbe diventato uno dei docenti più illustri dell’Accademia di Brera, soltanto un corso di decorazione plastica, serale, perché il giorno, da quando era ancora bambino, l’aveva passato con sgorbie e scalpelli fra le mani. Un autodidatta, insomma, che dopo essere stato folgorato da Donatello a Padova, dove era militare di leva, e dopo un soggiorno a Parigi, sbarcava a Milano con le idee ancora un po’ confuse, ma con tanta voglia di fare, di conoscere, di crescere.

Del talento di questo giovanotto si accorse, tra i primi, l’architetto Giovanni Muzio, quello, per intenderci, della celebre Ca’ Brutta a Milano (nonostante lo sfottò popolare, uno dei progetti più originali e straordinari della prima metà del Ventesimo secolo) o della basilica dell’Annunciazione a Nazareth. Muzio affidò al giovane Manzoni alcune sculture decorative per la cappella dell’Università Cattolica che aveva appena ultimato. In seguito Manzù arrivò perfino a “ripudiare” l’intera sua produzione plastica dei primi anni Trenta, ritenendola forse troppo “acerba”, espressione non ancora autentica della sua poetica. E invece èpotente, vitale, gioiosa persino, come dimostra anche il bel San Giovannino che Manzù realizzò per il fonte battesimale di un’altra chiesa milanese concepita da Muzio, quella di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, oggi “illuminata” dall’installazione di Dan Flavin.

In poco tempo, insomma, Manzù era riuscito a inserirsi perfettamente nell’ambiente artistico e culturale milanese. Era diventato amico, e collega accademico, di Marini, Carrà, Casorati. Aveva conosciuto i poeti Quasimodo e Montale. E in un decennio era già diventato un nome, un artista affermato. Ed era maturato, moltissimo. Come dimostra, fra gli altri, il bellissimo David (le cui versioni sono in una collezione privata milanese e nella raccolta di Ardea), realizzato alla vigilia della guerra: un David bambino (ispirato probabilmente ai pastorelli bergamaschi che ben conosceva), gracile e rannicchiato, e tuttavia nella determinazione di chi sta per scoccare il colpo decisivo.

O come dimostra, ancora, il Grande ritratto di signora, del 1946: nella comoda vestaglia della nobildonna milanese Alice Lampugnani si legge già, infatti, la prima traccia di quelle "pieghe al vento" che diventeranno l’idea ricorrente della sua arte più compiuta.

Pieghe che ritornano, seppur con altro "spessore", non nel più consueto bronzo, ma nel bianchissimo marmo di Carrara, in una statua collocata all’interno della chiesa dell’Abbazia di Chiaravalle, alle porte della città. Si tratta di un autentico, emozionante capolavoro che rappresenta il tema della Resurrezione: non quella di Cristo, si badi, ma dell’umanità intera. Manzù realizzò l’opera nel 1976 in memoria dell’amico Raffaele Mattioli, sepolto nel vicino cimitero. Il volto è nobile, composto, apparentemente enigmatico, perchè maschile e femminile insieme: simbolo dell’eternità infine raggiunta. Exsurrexi et adhuc sum tecum, si legge infatti sulla base: sono risorto e sono ancora con te. Con te Cristo, Signore della Vita.