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Anniversario

Borromeo: per Milano
fede, cultura, solidarietà

Quattrocentocinquanta anni fa, il 18 agosto 1564, nasceva a Milano il cardinale Federico, cugino e successore di San Carlo alla guida della Diocesi

di Luca FRIGERIO

17 Agosto 2014

«Fu degli uomini rari in qualunque tempo…». Così scrive Alessandro Manzoni del cardinal Federico Borromeo nei Promessi sposi, in un ritratto che ad alcuni, soprattutto in passato, è parso fin troppo elogiativo, e che invece riassume bene la complessità di una figura che fu vescovo premuroso e umanista cristiano, amante della bellezza dell’arte e lungimirante educatore, pioniere del dialogo interreligioso e fondatore di straordinarie istituzioni culturali, come l’Ambrosiana, che proseguono ancor ai nostri giorni la loro attività. Un personaggio, insomma, da riscoprire e da approfondire in tutte le sue sfaccettature. E magari proprio oggi, a 450 anni dalla sua nascita.

Quando Federico vide la luce, il 18 agosto 1564 a Milano, suo cugino Carlo Borromeo era stato da poco nominato arcivescovo della diocesi ambrosiana. Quasi un segno, di come l’uno sarà chiamato a essere il continuatore dell’opera pastorale, ma anche civile e culturale, dell’altro. Carlo, del resto, di 26 anni più grande, per Federico rappresentò sempre un punto di riferimento, un modello, e perfino un padre, dopo essere rimasto orfano ancora bambino. Proprio dal cugino, per esempio, gli giunse lo sprone ad approfondire gli studi, nonostante i vari precettori si fossero dichiarati piuttosto scettici sulle capacità del piccolo Federico. Che invece aveva solo bisogno di un po’ di incoraggiamento, ricettivo e curioso com’era, fin dalla più tenera età, di ogni stimolo intellettuale, come si può scoprire leggendo le sue carte adolescenziali…

Così si potrebbe pensare che la consacrazione religiosa e la carriera ecclesiastica siano state una sorta di tappe obbligate, nella vita di colui che era imparentato a un così grande e santo vescovo. In realtà sappiamo che la vocazione sacerdotale di Federico fu sincera e meditata, e che se Carlo intervenne fu solo per orientare il giovane cugino, indeciso se abbracciare un ordine religioso, verso il clero diocesano.

Quando il santo Borromeo morì, stroncato dalle innumerevoli fatiche per il suo gregge, il 3 novembre 1584, Federico era ormai prossimo alla laurea in teologia all’Università di Pavia. Conseguita la quale, si recò a Roma, non senza qualche titubanza, per continuare gli studi e mettersi al servizio della Chiesa. Sensibile, preparato, di carattere amabile, a soli 23 anni venne nominato cardinale, vestendo la porpora senza sfarzo né tracotanza. Guadagnandosi la stima dei diversi pontefici che si susseguirono in pochi anni, tanto che Clemente VIII, per esempio, paragonandolo al cugino Carlo lo definì «pari in santità, superiore per dottrina».

Nella “città eterna”, d’altra parte, il giovane Borromeo poté entrare in contatto con uomini di eccezionale erudizione, come i cardinali Cesare Baronio e Roberto Bellarmino, impegnati in prima linea nell’attuazione delle riforme tridentine. Ma soprattutto strinse amicizia con san Filippo Neri, che elesse a padre spirituale. Mentre cresceva ogni giorno di più la sua passione per l’arte e per l’archeologia cristiana, frequentando personalmente pittori, mecenati e collezionisti.

La nomina ad arcivescovo di Milano lo raggiunse appena trentenne, nel 1595, alla morte di Gaspare Visconti (immediato successore di San Carlo), e nonostante la cosa potesse sembrare scontata, il cardinal Federico accettò il gravoso compito consapevole delle difficoltà e delle responsabilità che esso comportava, anche in raffronto al supremo modello di santità e di zelo del cugino predecessore.

Il nuovo pastore, d’altra parte, aveva un’idea ben chiara di come impostare il suo episcopato milanese. Il futuro della Chiesa ambrosiana, confidò alle pagine dei suoi diari e ai suoi più stretti collaboratori, si giocava sulla capacità della grande Diocesi di riproporre, in modo originale e creativo, la dottrina cristiana di sempre alla luce delle rinnovate direttive conciliari, facendo interagire l’attenzione concreta ai più poveri con la promozione di tutte quelle arti in cui si riflettono la sapienza e la bellezza di Dio.

Un programma pastorale che il Borromeo cercò di attuare partendo dalla preparazione dello stesso clero ambrosiano che, per disponibilità, spiritualità e istruzione, doveva essere quanto mai dissimile dal don Abbondio di manzoniana memoria! Raccogliendo poi l’eredità di Carlo, nei suoi 36 anni di ministero episcopale Federico celebrò ben 14 Sinodi diocesani, e intraprese più di una volta la visita alle parrocchie della diocesi, accompagnata da un’instancabile predicazione. Sempre in difesa del suo popolo, sia dalle prepotenze dei governatori spagnoli (incuranti perfino delle direttive imperiali), sia in occasione delle carestie e delle pestilenze che flagellarono la Lombardia tra il 1625 e il 1630, quando l’arcivescovo Federico, come il suo grande predecessore Carlo, rimase tra la gente a rincuorare, e, come Ambrogio, destinò gli ori degli altari agli affamati e ai derelitti.

E in tutto questo, il fondatore della Biblioteca Ambrosiana non tralasciò mai i suoi amati studi, le sue preziose opere d’arte, spaziando in moltissimi campi dello scibile, interessandosi e scrivendo di teologia, filosofia, storia, letteratura, agiografia, fino alle scienze naturali e alle lingue antiche, moderne e orientali. Una mole di circa un’ottantina di opere, soltanto alcune delle quali pubblicate mentre l’autore stesso era ancora in vita. Così che, come scrisse Cesare Cantù, il cardinale Federico Borromeo «volle morire col crocifisso in una mano, la penna nell’altra».

Il suo dialogo
con l’Islam

Fra i molti campi in cui il cardinal Federico Borromeo impegnò le sue forze e il suo ingegno vi è anche quello del dialogo fra le religioni, del quale dunque può essere considerato un precursore. Come dimostra un testo breve ma prezioso, Luce mattutina, inedito fino alla recente edizione di Àncora. Si tratta di un piccolo trattato apologetico sulla fede cristiana, pensato appositamente per il mondo musulmano. Che il Borromeo, si badi, non scrive in forma dotta ed erudita, ma come un dialogo semplice e immediato, di facile comprensione e di agile lettura, concependolo fin dall’origine per essere tradotto nella lingua araba. Il racconto si dipana come una fiaba, in cui il protagonista è proprio un musulmano che narra di come gli sia apparso in sogno un antico re persiano, che secoli prima era vissuto nella fede cristiana. L’espediente della “visione dialogica” - che ha illustri modelli tra i Padri della Chiesa - permette al cardinal Federico un’esposizione chiara e sistematica delle verità cristiane, mostrando come in tutta la storia dell’umanità sia costante ed evidente l’intervento della divina Provvidenza. Il tono è sempre sereno. Non c’è polemica, non c’è violenza verbale nelle parole del Borromeo. I due, il cristiano e il musulmano, si soffermano ad analizzare i punti in comune delle rispettive religioni, piuttosto che le differenze. E ciò nonostante, l’arcivescovo di Milano non dimentica mai il suo spirito missionario, rispettoso ma fermo. (l.f.)