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Biblioteca

Così l’Ambrosiana
svela i suoi tesori più preziosi

Nella Sala delle Accademie presentate, ed eccezionalmente esposte al pubblico, le "Omelie" di Gregorio di Nazianzo, straordinario manoscritto greco del IX secolo, riccamente miniato. Si tratta di un nuovo appuntamento della serie "Intorno a un codice", che ha riscontrato un ampio consenso

di Luca FRIGERIO

2 Aprile 2014

Un antico capolavoro dall’origine misteriosa, la fuga da un’isola sotto assedio, fino al rocambolesco arrivo a Milano, nella collezione di uno degli uomini più colti del suo tempo… Sembra la trama di un romanzo d’avventure, ed è invece la storia vera di uno dei manoscritti più interessanti e preziosi della Biblioteca Ambrosiana, scrigno incomparabile di tesori cartacei (e non solo, naturalmente): quello catalogato E 49-50, che raccoglie le omelie di Gregorio di Nazianzo.

Proprio quest’opera straordinaria è stato al centro del nuovo appuntamento del ciclo “Intorno a un codice”, mercoledì scorso, presso la stessa Biblioteca Ambrosiana, con la presentazione di Francesco Braschi e Stefano Serventi. Una serie di incontri divulgativi, promossa dalla Classe di studi greci e latini, che ha registrato un notevole successo di pubblico, perché permette finalmente di conoscere non soltanto i contenuti, ma, appunto, anche le storie che accompagnano questi meravigliosi manoscritti antichi, nell’occasione eccezionalmente offerti all’ammirazione dei partecipanti. Come è accaduto, nelle settimane scorse, con il Teseida di Boccaccio e con il codice A 220, posto significativamente in relazione con Carlo Magno, nel dodicesimo centenario della morte.

Fu del resto lo stesso fondatore dell’Ambrosiana, il cardinale Federigo Borromeo, a organizzare nei primi anni del XVII secolo una “caccia al tesoro” senza precedenti, lungo tutta la penisola italiana come nel bacino del Mar Mediterraneo, nell’Europa occidentale come in quella orientale, allo scopo di preservare le ultime vestigia di culture che stavano scomparendo e le testimonianze scritte di gloriose civiltà, antiche e moderne. Una “partita” giocata a tutto campo, in cui il grande arcivescovo di Milano impiegò i propri beni personali e si servì del fiuto e dell’intelligenza di autentici “segugi” bibliofili, capaci di recuperare intere biblioteche monastiche disperse come singoli, rarissimi esemplari, salvando codici e manoscritti unici per importanza e bellezza. E restituendoli così, attraverso la Biblioteca da lui creata (la prima al mondo realmente aperta al pubblico), alla conoscenza di tutti.

Dunque, i due tomi che raccolgono l’intero corpus omiletico di Gregorio nazianzeno, vissuto fra il 330 e il 390 e definito “teologo” per antonomasia dalla Chiesa d’Oriente, giunsero nelle mani del cardinal Federigo nel 1606, insieme ad altri trentasei manoscritti greci. A condurli con sé nel capoluogo lombardo fu tale Stefano Maurogordato, che arrivava dall’isola greca di Chio, per secoli fiorente dominio genovese, ma in quegli anni ormai invasa e conquistata dagli Ottomani. Non sappiamo chi sia stato questo Stefano che si mise in contatto con il cugino di san Carlo, ma quello dei Maurogordato risultava essere uno dei casati più in vista nell’isola dell’Egeo orientale: dopo la conquista turca, i suoi membri si dispersero poi tra Costantinopoli e l’Italia centrale, dove continuarono a distinguersi per tutto il XIX secolo.

È lecito ipotizzare, insomma, che questo Stefano Maurogordato abbia abbandonato l’ormai insicura isola di Chio riparando in Occidente e portando con sé quanto di più prezioso la sua famiglia avesse accumulato in quegli anni, come appunto gli oltre trenta antichi codici greci che poi affidò alle premurose cure dell’arcivescovo collezionista Borromeo.

Sontuoso per dimensioni (è formato di ben 820 carte, con fogli che misurano circa 44 centimetri per 33), ricchissimo quanto a decorazioni (impressionante l’uso dell’oro), solenne nella scrittura (una maiuscola ogivale inclinata per il testo delle omelie, diritta per le annotazioni e le glosse), questo “Gregorio di Nazianzo” è oggi datato dagli studiosi al IX secolo.

Si continua a discutere, invece, riguardo al luogo dove questa monumentale opera sia stata prodotta. Le miniature, in particolare, paiono fondere nelle figure lo stile bizantino con un “gusto” occidentale, così come i personaggi ecclesiastici sembrano indossare paramenti alla latina (tonsure comprese): la qual cosa potrebbe far quindi pensare a un ambiente italico, e in particolare a un grande monastero di tradizione greca, come all’epoca ve ne erano proprio a Roma. Ma per chi sia stato realizzato questo capolavoro e quali siano state le vicissitudini che l’hanno portato sull’isola di Chio resta ancora un mistero. Un mistero che l’incontro di mercoledì all’Ambrosiana ci ha aiutato, almeno un poco, a svelare.