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Storia

I cattolici ambrosiani nella Grande Guerra,
fra speranza di pace e senso del dovere

Tra il 1915 e il 1918 furono oltre 500 i sacerdoti della diocesi di Milano richiamati alle armi, mentre i seminari accoglievano feriti e malati. La guida del cardinal Ferrari, ispirata alla carità e a un "patriottismo pastorale", accanto ai soldati e alle loro famiglie.

di Luca FRIGERIO

29 Maggio 2015

Fino all’entrata in guerra dell’Italia, esattamente cento anni fa, l’atteggiamento del clero e dei cattolici italiani era stato di prudente attesa e di fiducia nelle istituzioni. La posizione di ostilità preconcetta nei confronti dello Stato italiano, infatti, era ormai presente solo in alcune aree circoscritte del mondo cattolico, mentre il lealismo e la solidarietà patriottica erano penetrati diffusamente nelle gerarchie ecclesiastiche e tra i fedeli.

I cattolici italiani non avevano voluto il conflitto. Anzi, confortati dalle parole di papa Benedetto XV, per la maggior parte vi si erano opposti con tenacia. Ma di fronte alla decisione di scendere in guerra, pur non condividendo le ragioni dell’intervento, obbedirono consapevolmente, pronti a compiere il proprio dovere di cittadini italiani.

Lo stesso arcivescovo di Milano, il cardinale Andrea Ferrari, mantenne per tutta la durata della prima guerra mondiale un atteggiamento ispirato ad una sorta di “patriottismo pastorale” che caratterizzò l’impegno ambrosiano negli anni del tragico conflitto. «Nell’arcivescovo vi era innanzitutto la preoccupazione di garantire ai fedeli della diocesi non solo il servizio divino, ma soprattutto il conforto della presenza del clero, nonostante la nutrita mobilitazione dei sacerdoti», come ha spiegato lo storico Giorgio Rumi. «Ma in lui c’era anche il sentimento di partecipazione doverosa al destino del popolo, con il suo dramma e gli sconvolgimenti che anche il fronte interno subiva. Senza contare l’assidua vigilanza per evitare ogni pretesto alla fazione anticlericale d’accusare la Chiesa ambrosiana di antipatriottismo o di sabotaggio dello sforzo bellico».

Convinto forse dell’inevitabilità della guerra, il cardinal Ferrari interpretò il proprio compito essenzialmente in senso caritativo, a sollievo, per quanto possibile, dei combattenti e delle loro famiglie. E se non tralasciò di ricordare alla diocesi i più alti ideali patriottici, egli evitò tuttavia di ricorrere ai richiami “mitici” del sentimento nazionale, badando, piuttosto, a incitare alla sopportazione dei sacrifici richiesti dalla patria.

Ferrari, come la maggior parte dei vescovi italiani, chiedeva con forza la pace. Ma una «pace onorata», come affermava lui stesso, «una pace in cui l’Italia, fatta più grande, ritorni a Cristo, ritorni alla sua dottrina, ritorni alla fede dei padri suoi».

Durante gli anni della guerra, l’Arcivescovado di Milano venne così trasformato in quartier generale per l’assistenza religiosa dei cappellani e dei soldati al fronte, mentre lo stesso cardinal Ferrari attivò un ufficio per comunicare alle famiglie notizie dei caduti, dei prigionieri, dei feriti e dei dispersi.

I seminari ambrosiani di Milano e di Monza furono adibiti a ospedali militari, e lo stesso avvenne con i collegi arcivescovili e con molti istituti religiosi. E mentre le autorità civili, come al tempo della peste di san Carlo, si allontanavano dai focolai di infezione, l’arcivescovo continuava con carità e coraggio le sue visite ai malati, onorando degnamente la tradizione ambrosiana che nei momenti più drammatici della sua storia ebbe nei propri vescovi degli autentici padri.

Tra il 1915 e il 1918 furono oltre cinquecento i sacerdoti ambrosiani richiamati alle armi, cioè più di un quarto del totale. Alcuni divennero cappellani militari, rivestendo così un ruolo di grande importanza nelle file dell’esercito italiano, anche perché le autorità politiche e militari, almeno fino a Caporetto, non promossero alcuna seria opera di assistenza fra le truppe. Ma la maggior parte dei preti vestì semplicemente il grigioverde, condividendo con i soldati i disagi della trincea e le paure degli assalti, ricevendo encomi e medaglie, piangendo morti e feriti.

E fu proprio dall’esperienza dolorosa della guerra che maturò nel clero ambrosiano, ed in quello cattolico europeo in genere, una nuova consapevolezza del proprio ruolo nella società, ancora più vicino ai problemi concreti della gente, ancora più attento ai bisogni quotidiani dei fedeli. Così come fu proprio sui campi di battaglia che si possono ritrovare, in molti laici cattolici e in buona parte del clero, le radici della futura opposizione a quei totalitarismi e a quelle ideologie della violenza che precipiteranno l’Europa nella nuova tragedia della seconda guerra mondiale.

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