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Storia

Il genocidio negato del popolo armeno

Le parole forti pronunciate da Papa Francesco in Armenia su quella che è considerata la madre di tutte le violenze. «Quella tragedia, quel genocidio - ha detto - inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso». In pochi mesi, tra il 1915 e il 1917, oltre un milione e mezzo di armeni furono deportati ed eliminati dall’Anatolia ad opera dell'allora partito rivoluzionario dei "Giovani turchi", nell'indifferenza della comunità internazionale.

di Luca FRIGERIO

27 Giugno 2016

Testimoni diretti del Metz Yeghérn, il “Grande male”, oggi non ce ne sono più. Tracce poche, ammissioni scarse. E sullo sterminio degli armeni in Turchia, tra il 1915 e il 1917, da tempo è sceso il silenzio, l’oblio più assoluto. Un genocidio perfetto, dal punto di vista dei carnefici. Una “pulizia etnica” perpetrata nell’indifferenza della comunità internazionale, incoraggiata dall’impunità di Stato. 

Resta qualche rara immagine, rubata da missionari e diplomatici occidentali in Armenia in quei tragici giorni. Immagini a cui per lungo tempo non si è voluto credere, davanti alle quali ancora oggi molti preferiscono chiudere gli occhi. Perché quella armena, a distanza di un secolo dallo sterminio, è una questione che crea ancora imbarazzo e fastidio. Soprattutto tra i governi del cosiddetto “mondo civile”.

Vita facile non l’ebbero mai, gli armeni. Concentrati a est dell’Eufrate (nelle regioni caucasiche e nell’area nord-orientale del Mediterraneo), minoranza cristiana, depositari di una raffinata cultura millenaria, gli armeni dovettero lottare senza sosta nei secoli contro nemici e invasori.

Ma fu paradossalmente la crisi dell’impero Ottomano, sul finire dell’Ottocento, a segnare l’inizio dell’ora più buia per il popolo armeno. Porta infatti la data del 1894 il primo massacro sistematico e pianificato: fu ispirato dal sultano Abdul-Hamid che, perso il prestigio degli avi (e con esso la tradizionale tolleranza), tentò così di soffocare nel sangue l’irredentismo armeno. Le vittime furono circa trecentomila, decine di migliaia le conversioni forzate all’Islam, incalcolabile il numero degli armeni che furono costretti ad abbandonare per sempre la loro terra.

Ma la componente religiosa, chiariamolo subito, poco o nulla c’entra con il genocidio degli armeni, le cui motivazioni, piuttosto, vanno cercate nella sete di potere, nel nazionalismo esasperato, nella follia di onnipotenza di pochi, sostenuta tuttavia dalla viltà e dall’accondiscendenza di molti. Fallito il progetto di mantenere un impero ottomano formato da un mosaico di popolazioni musulmane (turchi, curdi, arabi) e cristiane (slavi, greci, siriani, armeni), agli inizi del secolo in Turchia si impose una nuova dottrina, che considerava la razza turca superiore e che auspicava l’unione di tutti i turchi, dal Bosforo alla Cina. Gli altri popoli dovevano essere o allontanati (la qual cosa stava per succedere agli slavi e agli arabi), o espulsi (sorte che attendeva i greci): gli armeni, che formavano una sorta di “barriera” fra turchi ottomani e tatari azeri, dovevano invece essere eliminati, sacrificati sull’altare del “panturchismo”.

Ad attuare questo progetto non fu tuttavia un nuovo sultano, ma i giovani rivoluzionari del «Comitato unione e progresso» (Ittihad), che saliti al potere nel 1908, stabilirono di lì a poco una vera e propria dittatura militare. Massacri “isolati” vennero fatti in varie province armene, quasi una sorta di test per verificare la reazione dell’Europa, che in effetti fu nulla: la Turchia, da un punto di vista strategico, era (ed è) troppo importante per inimicarsela per questioni “interne”.

Alla vigilia della Prima guerra mondiale gli armeni presenti nell’impero ottomano erano circa due milioni, poco meno quelli in territorio russo. Il conflitto li trovava così schierati su fronti opposti, la qual cosa offriva evidentemente non pochi pretesti ai teorizzatori del necessario genocidio. Gli armeni inquadrati nell’esercito turco, accusati ben presto di tradimento e di ogni altra nefandezza, furono disarmati e incarcerati.

La pulizia etnica ebbe inizio all’alba del 24 aprile 1915, e fu attuata secondo schemi studiati da tempo. Si cominciò dalla capitale, Costantinopoli, dove risiedeva una numerosa comunità armena e dove era concentrata l’intellighenzia: scrittori, giornalisti, professionisti, deputati, centinaia di intellettuali armeni vennero contemporaneamente arrestati in ogni parte della città, deportati verso l’interno dell’Anatolia e uccisi. In poche ore, senza possibilità di reazione, l’Armenia si ritrovò decapitata delle sue guide politiche e culturali.

In tutti i territori armeni, le milizie turche agirono allo stesso modo: si cominciava con l’arrestare i notabili dei villaggi, passandoli per le armi dopo aver estorto loro ammissioni di colpa; poi seguiva la deportazione di tutta la popolazione, giustificata (quando gli ufficiali si prendevano la briga di farlo) con motivi di sicurezza per la guerra in corso. La tremenda realtà, tuttavia, era sotto gli occhi di tutti, anche perché le famiglie venivano smembrate, gli uomini condotti lontano e massacrati. Vecchi, donne e bambini erano invece costretti a un esodo forzato, in condizioni disumane: meta era la Siria, il deserto attorno ad Aleppo il loro destino. Ma solo pochi, pochissimi vi arrivarono, decimati dalla fame e dalla sete, dalle malattie e dalla fatica, da sevizie e tormenti di ogni genere. I Giovani Turchi dell’Ittihad l’avevano affermato da tempo, e ora attuavano con scrupoli le loro teorie: «Nessun armeno dovrà più restare in suolo turco».

Al termine del conflitto, in seguito alla disfatta ottomana, i principali responsabili del genocidio armeno fuggirono all’estero, soprattutto nell’ex alleata Germania. Contro di loro, le nuove autorità turche organizzarono un processo, ma più per dissociarsi da quei «Giovani turchi» ormai caduti in disgrazia (e «responsabili di ogni male») che per autentico desiderio di giustizia. Gli autori dello sterminio, infatti, furono infine condannati, ma nessuna domanda di estradizione fu avanzata, e i verdetti stessi vennero successivamente annullati anche dai tribunali europei che pur avevano ormai molte prove e sicure testimonianze di quella criminale tragedia.

Tutto venne dimenticato, tutto venne insabbiato. Fu questo il genocidio di un popolo: in pochi mesi, oltre un milione e mezzo di armeni furono cancellati dall’Anatolia. Semplicemente non esistevano più. Anzi, non erano mai esistiti. Quando, alcuni anni più tardi, un commissario bolscevico pose sul tappeto la questione armena nell’ambito dei trattati tra l’Unione Sovietica e la Turchia, i diplomatici di Ankara gli risposero che «in Turchia non ci sono mai stati né un’Armenia, né un territorio abitato da armeni». Perfino la loro memoria doveva essere cancellata, distrutta come venivano distrutti, a colpi di cannone e con la dinamite, gli splendidi monasteri, le bellissime chiese d’Armenia.

Così, se il genocidio degli armeni non insegnò nulla alle distratte democrazie occidentali, diede invece non pochi suggerimenti ai regimi totalitari di poco posteriori e alle loro aberranti ideologie. «Chi, dopo tutto, parla oggi dell’annientamento degli armeni?», affermava con fare sarcastico Adolf Hitler alla vigilia dell’invasione della Polonia, nel 1939, prospettando la distruzione di quella nazione e l’imminente, “inevitabile” olocausto del popolo ebraico.