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Teologia e poesia

Il narratore divino: la poesia nel tempo dell’esegesi narrativa

Quel che importa non è tanto che Dio offra metafore ai poeti, ma che offra suo Figlio a tutti, “il narratore divino”, il Logos, la Parola che racconta del Padre suo, e come si prenda cura di quanti gli ha affidato e di quanti crederanno in lui per la testimonianza raccontata dai suoi discepoli.

di don Giuseppe VILLA

26 Giugno 2020

«Tutta la Bibbia è metafora, ogni preghiera è metafora», scriveva il prof. Luigino Bruni domenica 21 giugno sul quotidiano Avvenire. E per questa ragione «Dio ci si rivela anche suggerendo ai poeti metafore», in particolare nel salmo 23 le metafore del pastore e dell’ospitalità. In una linea più ampia, il cardinal Ravasi ripete che la Bibbia è “il codice dell’arte”, una sorta di “lessico immenso” o “repertorio letterario”.

Oggi tanti affermano che la Bibbia sia una sorta di narrazione o un insieme tante narrazioni: narrazioni ispirate da Dio, si intende, e scritte da uomini. Gesù non ha lasciato niente di scritto, tuttavia ha raccontato parabole, tra cui anche quella del buon o bel pastore. Oltre a questa come non ricordare le parabole del seminatore, della perla, del granello di senape, del padre misericordioso e diverse altre? Tuttavia non è tanto l’abbondanza delle parabole o metafore a costituire un tesoro per l’arte: se lo fosse, i Vangeli sarebbero una sorta di “Legenda aurea” di Jacopo da Varagine.

Già Manzoni l’aveva capito. Nel lavoro intertestuale dei Promessi sposi, cercava “parole vive” che potessero fermentare il testo successivo, magari anche solo una parola. All’inizio del XXII capitolo, Manzoni interrompe la narrazione con una lunga digressione sull’Ambrosiana, motivandola attraverso una combinazione di citazioni: «come il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare per un terreno arido e salvatico, si trattiene … vicino a una fonte d’acqua viva». Il paragone suggerisce al lettore qualche reminiscenza leopardiana del “Pastore errante”, a differenza del quale, però, lo scrittore si avvicina alla “fonte d’acqua viva”, mentre al poeta di Recanati era caro “l’ermo colle”.

La “fonte” descritta da Manzoni sembrerebbe un vezzo retorico dell’amico Vincenzo Monti del 1802 (M. G. Riccobono), mentre invece è un richiamo intertestuale a un passaggio di Giovanni 4, a cui egli era particolarmente legato. «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Il capitolo XXII termina con l’affermazione confidenziale del narratore al lettore: «sarà meglio che riprendiamo il filo della storia, … con la guida del nostro autore». L’affermazione di essere altro dall’autore, dimostra che la sua alterità di natura meta-narrativa non gli impedisce di accedere alla “riserva di senso”, che quella “metafora viva” ha acceso. Così anche il lettore, che prima ha ascoltato la citazione di Leopardi e ora riconoscendo questa citazione, è spinto pensare che essa stia per “fermentare” nel testo per riapparire in qualcosa o in qualcuno di più preciso nelle tappe successive, appunto, nella conversione dell’Innominato.

Quel che importa allora non è tanto che Dio offra metafore ai poeti, ma che offra suo Figlio a tutti, “il narratore divino”, il Logos, la Parola che racconta del Padre suo, e come si prenda cura di quanti gli ha affidato e di quanti crederanno in lui per la testimonianza raccontata dai suoi discepoli. Il legame tra Dio e la poesia è più intrinseco al suo darsi, alla forma narrativa con cui si dà con il Figlio. E viceversa il legame tra l’uomo e la poesia è più intrinseca all’uomo “uditore” (Rahner) e “lettore” (narratologia) di quella Parola. Intesa in questo modo, un contributo importante è l’approccio ai testi sacri con le risorse della narratologia, una metodologia sorta negli anni ottanta del secolo scorso.

Il messaggio di Papa Francesco per la 54ma giornata mondiale delle comunicazioni sociali (“Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria”, Es 10,2. La vita si fa storia), richiama proprio il metodo narrativo. Anche a lui è caro il raccontare, infatti, scrive: «Il Signore consegna a Mosè il senso di tutti questi segni: “perché tu possa raccontare e fissare nella memoria di tuo figlio e del figlio di tuo figlio i segni che ho compiuti: così saprete che io sono il Signore!” (Es 10,2). L’esperienza dell’Esodo ci insegna che la conoscenza di Dio si trasmette soprattutto raccontando, di generazione in generazione, come Egli continua a farsi presente. Il Dio della vita si comunica raccontando la vita».

Nell’introduzione scrive così: «L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità (cfr Gen 3,21), ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di “rivestirsi” di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti: infatti, la capacità umana di “tessere” conduce sia ai tessuti, sia ai testi. Le storie di ogni tempo hanno un “telaio” comune: la struttura prevede degli “eroi”, anche quotidiani, che per inseguire un sogno affrontano situazioni difficili, combattono il male sospinti da una forza che li rende coraggiosi, quella dell’amore. Immergendoci nelle storie, possiamo ritrovare motivazioni eroiche per affrontare le sfide della vita».

Il passaggio alla scrittura, non potrà essere ‒ diceva Piero Boitani ‒ che «una ri-scrittura quale principio che ne governa la crescita». “Entrando alla festa”, tratto dal mio Teologia e poesia, non è una parafrasi aggiornata della parabola del Padre buono, ma una professione di fede, o meglio cosa accade o desidero che accada alla coscienza quando accede alla fede, e per me che ho qualche anno, quando entrerò nella festa finale con il Padre. Mi guida certamente il racconto della parabola del narratore divino.

Entrando alla festa (dalla parabola del Padre buono)
… Spaesato, dopo la lettura,
mi trovo di notte presso casa tua.
C’è buio fondo e tanto silenzio:
solo la parola fuori campo
di chi ha narrato la parabola
tiene i miei occhi sull’uscio socchiuso.
La sua compagnia
non mi lascia solo qui al buio,
così come la storia del figlio lontano:
la sua compagnia mi basta,
mi basta la parola del Figlio,
che sopporta l’assenza del Padre.

Quanto più indugio alla porta
tanto meno rendo onore
al privilegio concessomi dal narratore.
Tutto tace, anche il nulla,
che, sibilando, cancella ogni suono.
Ed io non so che dire,
esitante tra il dire dei due fratelli,
che cavalca sulle nuove onde,
e il mio dovere di chiedere permesso.
Spingo l’uscio piano piano,
incoraggiato da una luce
che, furtiva, s’infiltra fuori.

Tra il non sapere e il dovere di dire,
s’impone quella luce calda
che m’accoglie teneramente,
e, rinfrancato, mi consegna
alla docile calma del libero ascoltare.
Dimentico di me,
mi prende lo stupore
allo schiudersi di quella stanza:
ascolto il dire che non ha suono,
tra gli opposti che si scontrano in me,
nell’invisibile sapienza
della tua presenza, o Padre.

Sono dentro, e non Ti vedo,
come il maggiore non vede
la luce calda di questa stanza.
Il narratore non m’ha detto
che nomi avessero i due figli.
Prodigo di parole, il giovane,
sino a parlarsi addosso;
taciturno l’altro,
sino a quando esplose di rancore.
Forse era uno, nessuno e centomila.
Certamente sono io, pietra, che, dura,
m’impedisce di sentirti vicino.

Alla finestra vedo il figlio giusto:
il narratore lo lasciò fuori casa.
Dentro questa abitazione
ha posto la lontananza dal Padre,
mentre non vi ha messo
chi rifiuta di far festa.
In centomila Ti hanno chiesto cibo
e uno solo s’aspettava almeno un capretto.
Un altro voleva solo entrare,
ma se ne andò cupo in volto
e col cuore indurito:
nessuno di questi vi prese parte.

Sono qui persuaso dal narratore
e dalla dolcezza del tuo Spirito
che, al tuo silenzio, posso restare.
Nella tenerezza del tuo intrico
trae origine il mio dire
che tace il dire dei due fratelli.
Di gioia sussulto come un bimbo
per la madre che mi portò
alla parola che ha suono,
e per il narratore
che mi ha condotto all’ascolto
di questa grande festa.