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Così muore il futuro a Gaza

Bambini e giovani uccisi nello scontro tra Israele e Hamas. Parla il segretario generale di Caritas Gerusalemme: «Non si arriverà mai alla pace, alla giustizia, alla riconciliazione attraverso le armi e la violenza»

8 Gennaio 2009

09/01/2009

a cura di Daniele ROCCHI

Secondo fonti mediche palestinesi sono circa 700 i palestinesi morti da quando Israele, lo scorso 27 dicembre, ha lanciato a Gaza l’operazione “Piombo fuso”. Circa un terzo sono bambini e adolescenti di meno di 16 anni. Le vittime israeliane sarebbero 10, 6 militari e 4 civili.

Mentre la diplomazia è al lavoro per cercare di ottenere una tregua tra Israele e Hamas – il presidente francese Sarkozy avrebbe ottenuto la disponibilità di entrambe le parti per un dialogo con l’Egitto -, sul campo prosegue incessante, seppure tra molteplici difficoltà, l’impegno delle organizzazioni umanitarie per alleviare le sofferenze della popolazione, allo stremo anche per 18 mesi di blocco totale israeliano. Tra queste Caritas Gerusalemme, da sempre al fianco della popolazione della Striscia. Parla il segretario generale, Claudette Habesch.

Caritas Gerusalemme da tempo è presente a Gaza con i suoi volontari, che operano in particolare nel campo medico e sociale. Come state fronteggiando l’emergenza attuale?
Stiamo mettendo a punto un piano strutturato di aiuti umanitari per la popolazione di Gaza. Come Caritas cerchiamo in ogni maniera, e non da oggi, di aiutare questa gente che soffre. Ci sono famiglie che hanno perso la casa, distrutta dalle bombe. Le scuole sono chiuse e alcune ospitano persone fuggite in cerca di sicurezza. Sono sempre più esigue le riserve di viveri e di medicinali. L’inverno a Gaza è rigido, mancano coperte, cibo, medicinali. La gente non ha soldi per acquistare i beni di prima necessità, le banche non dispongono di liquidità da erogare a chi chiede prestiti. Manca soprattutto il carburante e quindi l’elettricità. C’è grande confusione e gli spostamenti sono quasi impossibili. Le comunicazioni sono saltate. Con il prezioso aiuto del parroco di Gaza, padre Manuel Musallam, e delle suore presenti in città cerchiamo di fare il possibile, ma è difficile in queste condizioni organizzare un piano di aiuti.

Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria cosa state facendo?
Lo staff medico del Centro sanitario di Caritas Gerusalemme a Gaza – 10 persone – lavora incessantemente e in continua emergenza. Abbiamo una clinica mobile che si trova in una scuola dell’Unrwa, a nord di Gaza, dove si sono rifugiate circa mille persone, provenienti da Beitlaya. Abbiamo poi medici volontari che aiutano in altri sei centri in tutta la Striscia; qui curiamo soprattutto i feriti, i casi più gravi vengono spediti negli ospedali. Purtroppo a Gaza ci sono solo 2053 posti letto negli ospedali e i feriti dai bombardamenti sono oltre 2500.

Come state rispondendo, invece, alla richiesta di cibo?
Oltre all’aiuto sanitario ci stiamo organizzando per fornire anche derrate alimentari alla popolazione. A Gaza opera un nostro coordinatore che agisce in sinergia con l’ufficio Unrwa delle Nazioni Unite e con il World food program per distribuire 1.500 pacchi di generi alimentari. Purtroppo al momento non è possibile raggiungere, a causa degli scontri, Gaza city, quindi almeno per adesso la consegna si avrà nella zona sud della Striscia, vicino Rafah. Ma non basta. Il parroco di Gaza, padre Musallam, con cui stiamo in stretto contatto, ci ha chiesto soldi per acquistare beni di prima necessità alle famiglie. Quando entrerà in vigore la tregua giornaliera di tre ore sarà possibile reperire qualcosa grazie a questo aiuto economico. Con la Caritas Internationalis stiamo mettendo a punto un appello per reperire 1,5 milioni di euro per l’emergenza.

Colpiscono le foto di bambini morti e feriti…
Sono loro le vittime principali di questa assurda guerra. Stanno distruggendo il loro futuro invece di costruirlo. Ho davanti a me le immagini di tanti bambini feriti e morti; come madre non posso accettare questa cosa. Mi domando perché il mondo sia così cattivo. Non si arriverà mai alla pace, alla giustizia, alla riconciliazione attraverso le armi e la violenza. Solo il dialogo può servire a trovare una soluzione giusta per i due popoli. Benedetto XVI ce lo ha ricordato con chiarezza, quando ha detto che la guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi. Lo conferma anche la storia più recente. Il rifiuto del dialogo porta a situazioni che gravano indicibilmente sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra.

Sembrerebbe che Israele e Autorità palestinese abbiano accettato il piano franco-egiziano per una tregua…
La comunità internazionale è stata in silenzio per molti giorni e solo alla fine si è decisa a intervenire diplomaticamente. Non sono bastate le manifestazioni della popolazione che chiedeva la fine della violenza, che gridava il proprio desiderio di pace e di tranquillità. La Convenzione di Ginevra non viene rispettata e con essa le risoluzioni dell’Onu.