Share

Cristiani perseguitati nel silenzio delle istituzioni internazionali

Sollecitati da papa Benedetto XV, che nell'Angelus del 12 ottobre ha invitato a pregare per i cristiani perseguitati, affrontiamo i problemi della comunità irachena intervistando il vicario patriarcale di Baghdad, monsignor Shlemon Warduni

15 Ottobre 2008

16/10/2008

a cura di Daniele ROCCHI

«Vi invito a pregare per la riconciliazione e la pace in alcune situazioni che provocano allarme e grande sofferenza: penso alle popolazioni del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, e penso alle violenze contro i cristiani in Iraq e in India, che ricordo quotidianamente al Signore». Con queste parole alla recita dell’Angelus, il 12 ottobre, Benedetto XVI ha richiamato l’attenzione del mondo sulle violenze cui sono soggetti i cristiani in India e in Iraq. Nei giorni scorsi il procuratore caldeo presso la Santa Sede, padre Philip Najim, aveva parlato di omicidi mirati, minacce e violenze che avevano costretto moltissime famiglie cristiane a lasciare la città. Ne abbiamo parlato con il vicario patriarcale di Baghdad, mons. Shlemon Warduni.

Eccellenza, il Papa sembra essere rimasto l’unico a ricordare alla comunità internazionale le violenze cui sono sottoposti i cristiani in Iraq e non solo…
Ringraziamo di vero cuore Benedetto XVI per le parole che ha rivolto ai cristiani di Iraq e di India. Il bravo padre non dimentica i suoi figli. L’Iraq è nel cuore del Papa.

Perché tutto questo silenzio delle istituzioni internazionali sulla persecuzione dei cristiani?
È un silenzio assordante. Tutte le organizzazioni internazionali, Onu compresa, tacciono. Dove sono gli Usa? Dov’è l’Europa? Dov’è la difesa del diritto naturale? E non parlo solo di quello dei cristiani ma di tutte le minoranze. A parlare del massacro iracheno sono solo i media cattolici, il Papa e pochi altri. Un silenzio inspiegabile.

Mosul, da giorni ormai, è teatro di violenti attacchi ai cristiani locali con morti, feriti e famiglie in fuga. Il 12 ottobre il premier al-Maliki ha deciso l’invio di 1.000 uomini per riportare ordine e sicurezza. Perché il governo si è mosso solo ora?
Abbiamo denunciato che il governo non ha fatto niente, rimanendo inerme. Quindi abbiamo chiesto, come cittadini iracheni quali siamo, di essere tutelati, di poter godere dei diritti che sono di tutto il popolo e con forza chiesto la fine del massacro. L’invio di 1.000 poliziotti è una decisione giunta solo dopo che abbiamo alzato la voce. Anche se in ritardo si sono svegliati.

Cosa ne pensa di questa scelta?
La scelta del premier va salutata con soddisfazione. Domenica 12 ottobre, siamo stati ricevuti dal vicepresidente al-Hashemi che ci ha garantito tutto il suo appoggio per arrivare al più presto alla fine degli attacchi contro le nostre comunità. Il vicepresidente ha ribadito che le minoranze, come i cristiani, sono cittadini iracheni che godono degli stessi diritti degli altri così come hanno dei doveri e degli obblighi. Ci ha anche assicurato che verrà dato aiuto alle famiglie cristiane che sono state costrette a lasciare Mosul a causa delle minacce di questi giorni.

Èpossibile tracciare un bilancio delle violenze registrate a Mosul?
Alcune notizie devono essere precisate. Il portavoce del ministero della Difesa, il 12 ottobre, intervistato da un canale televisivo ha parlato di sei cristiani uccisi. I martiri invece sono 13 e le famiglie cristiane costrette a fuggire per le violenze sono 1.119 e non 650. Senza contare, poi, quelle che sono riparate a Kirkuk, a Baghdad e a Erbil che dovrebbero essere più di 250. In dettaglio posso dire che le famiglie cristiane fuggite a Telleskof sono 220, 360 a Qaraqosh, 160 a Bartella, 116 ad Al Qosh, 40 a Batnaya, 97 a Tel Keif, 51 a Karamles, altre 51 a Mar Matti, il convento siro-ortodosso di san Matteo e 24 in un nuovo villaggio armeno.

Quante sono, invece, quelle rimaste in città?
Difficile dirlo. Mosul è divisa in due dal fiume Tigri. Nella parte più antica non si lamentano violenze, che invece si sono registrate in quella più moderna, che risale a circa 40 anni fa. In questa zona è difficile uscire, andare a scuola o al lavoro. Se le violenze non cesseranno la situazione si farà ancora più drammatica. Tuttavia si registrano anche belle storie di solidarietà con famiglie musulmane che accudiscono i loro vicini cristiani, che per paura, vivono rintanati in casa.

Le comunità cristiane del Paese in che modo solidarizzano con quelle di Mosul?
Soprattutto con la preghiera. Nella mia parrocchia di santa Maria del Sacro Cuore, a Baghdad, abbiamo promosso una giornata di digiuno e astinenza per i martiri di Mosul, per le loro famiglie e per la pace in Iraq. Stiamo cercando anche di promuovere una preghiera ecumenica, con i fedeli delle altre Chiese.

Il Papa ha parlato di riconciliazione. Dopo tutta questa violenza nel futuro dell’Iraq c’è ancora spazio per un’azione di riconciliazione e concordia?
Certo. Ma solo riconoscendo che siamo figli del Dio unico potremo favorire la riconciliazione. Quando c’è buona volontà, c’è l’amore di Dio, la riconciliazione è possibile, ma se a regnare è l’interesse particolare, il denaro, il petrolio, allora tutto diventa difficile se non impossibile. Dobbiamo gridare a gran voce che la famiglia, i giovani, la pace, la sicurezza, i valori spirituali di un popolo vanno difesi per far rinascere l’Iraq. Solo così arriveremo alla riconciliazione.