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Gaza, la striscia di sangue

Dietro la nuova recrudescenza bellica, l'imminenza delle elezioni in Israele, la lacerazione tra Fatah e Hamas tra i palestinesi e le convenienze incrociate dei vari "attori" della regione. Ma la pace si fonda sul coraggio, non sul taglione

30 Dicembre 2008

30/12/2008

di Riccardo MORO

La violenza dell’attacco israeliano nella striscia di Gaza è stata inaudita. Formalmente risponde ai lanci dei missili di Hamas contro Israele al termine della tregua firmata mesi fa con la mediazione dell’Egitto, ma colpisce per la determinazione. Il primo ministro in carica Olmert aveva detto più volte che Israele non desidera la guerra, ma intende difendere la sicurezza dei suoi cittadini minacciati dai missili di Gaza. È stato conseguente: Hamas ha lanciato missili, Israele ha risposto.

Dopo i primi due giorni le vittime hanno già raggiunto il numero di 300. Secondo Israele l’attacco è stato chirurgico, colpendo luoghi strategici e residenze dei leader di Hamas. Ma le testimonianze dirette dalla Striscia di Gaza parlano di attacchi contro i civili e devastazioni delle abitazioni della gente comune.

Una possibile spiegazione della violenza israeliana è legata all’imminenza delle elezioni in cui l’attuale ministro degli Esteri, Tzipi Livni, fronteggia, per conto di Kadima e dei laburisti, Bibi Netanyahu, candidato della destra e del Likud. La scelta tra le due opzioni è davvero alternativa.

Livni crede nel processo di pace, ritiene Abu Mazen e il suo partito Fatah interlocutori credibili e vuole proseguire gli sgomberi forzati dei coloni in terra palestinese. Netanyahu rappresenta la posizione opposta: il riconoscimento di uno Stato palestinese non è una priorità e i cittadini israeliani vanno difesi in ogni situazione, rafforzando l’apparato militare e il Muro.

In questo momento, a causa delle iniziative giudiziarie che hanno colpito l’attuale premier Olmert, Netanyahu ha il favore dei sondaggi. Livni e i suoi alleati temono la sconfitta e cercano quindi di mostrare ai cittadini israeliani determinazione in campo militare, con la speranza di attirare a tutti i costi il voto più moderato e tradizionale. Una vittoria di Netanyahu potrebbe essere per la pace, infatti, un salto nel vuoto.

Ma non è tutto qui. Negli ultimi anni è maturata una vera e propria lacerazione tra Hamas e Fatah e, più o meno simmetricamente, tra Gaza e Cisgiordania. Hamas ha occupato militarmente il potere a Gaza, e a Ramallah, sede del Parlamento palestinese, non si nutrono più troppe speranze sulla possibilità di una ricomposizione della crisi tra le due fazioni e, dunque, tra le due aree geografiche.

Sono in molti a premere su Abu Mazen perché convochi elezioni politiche solo per la Cisgiordania, formalizzando definitivamente così la separazione. Sinora il presidente dell’Autorità palestinese ha rifiutato, ma la degenerazione bellica a Gaza e il definitivo tradire gli accordi di pace da parte di Hamas potrebbe convincerlo a compiere il passo.

Anche l’Egitto e gli altri Paesi moderati della regione non vedono di buon occhio Hamas e il vento fondamentalista che alimenta. Non per nulla il Cairo ha tenuto chiuso l’unico valico di frontiera della Striscia non controllato da Israele, concorrendo ad aumentare la pressione sulla popolazione che soffre per l’embargo e l’impossibilità di viaggiare, nella speranza di alimentare così il malcontento verso i responsabili di questa situazione, cioè Hamas.

In sostanza, molti sono rassegnati a pensare che la situazione di Gaza non sia risolvibile e a sperare, quindi, che Israele faccia il lavoro sporco, penetrando militarmente nella Striscia e togliendo di mezzo il problema Hamas. Conviene al governo israeliano, che mira a recuperare consenso elettorale per poter negoziare una pace vera con Fatah in Cisgiordania. Conviene a questi ultimi per ottenere terra, Stato e pace. Conviene all’Egitto per togliere ossigeno ai Fratelli musulmani e alle fazioni fondamentaliste. Conviene alla Siria, che senza più l’impiccio di Gaza da difendere potrebbe trattare con Israele per riavere le alture del Golan e la loro acqua.

Ma anche con questa sintonia a muovere i passi di Tsahal, l’esercito israeliano, esistono due ostacoli. Il primo riguarda le piazze. In questi giorni si sono riempite di solidarietà per i caduti e per Gaza. Non sempre le piazze sono prevedibili e i governi della regione, compreso quello di Ramallah, potrebbero doverne tener conto, sia nel rapporto con Israele, sia nello scoprirsi in grembo nuovi germi anti israeliani e integralisti difficilmente gestibili. Il secondo è quello che riguarda le vittime. Se la politica fosse un gioco da tavolo da fare durante le feste natalizie, si potrebbe anche provare a seguire il filo degli interessi che abbiamo descritto. Ma non è così.

La violenza uccide e nessuno ha il diritto di costruire la propria pace con la vita degli altri. Inoltre, se anche un’azione militare ottenesse la caduta di Hamas, chi garantisce che sotto la cenere non continui a bruciare il fuoco del rancore che domani alimenterà nuova violenza? Se Livni vuole la pace dimostri di cercarla davvero senza violenza, con un dialogo regionale e con gesti inequivocabili, come l’interruzione del Muro. La pace si fonda sul coraggio, non sul taglione.