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India, fermare la violenza prima che sia troppo tardi

La situazione in Orissa è ora più tranquilla, ma segnali inquietanti giungono da altre parti del Paese: si temono attentati contro esponenti cattolici. La reazione ritardata e inadeguata delle autorità e la necessità di una mobilitazione da parte delle diplomazie internazionali

10 Settembre 2008

10/09/2008

a cura di Patrizia CAIFFA

«Il mondo deve sapere». E il mondo ha saputo che in India, la più grande democrazia del mondo con il suo miliardo di cittadini, culla delle religioni, della non violenza e della tolleranza, la libertà religiosa in alcuni casi non viene adeguatamente protetta e tutelata.

L’ha scoperto in maniera drammatica, guardando le immagini delle violenze contro i cristiani in Orissa, che durano da anni, ma si sono inasprite dopo l’uccisione del leader nazionalista indù Swami Laxanananda il 23 agosto, provocando oltre 20 morti, centinaia di feriti, centinaia di chiese e cappelle distrutte e oltre 60 mila sfollati o rifugiati nei campi.

In Italia i cattolici hanno reagito e si sono mobilitati con la Giornata di preghiera del 5 settembre. Ma la situazione è più complessa di quanto appaia. «Il Governo dell’Orissa e il Governo indiano non fanno tutto ciò che si dovrebbe fare, nonostante la presenza della polizia – dice monsignor Alex Das Neves Dias, vescovo di Port Blair, nell’arcipelago delle Andamane e Nicobare (572 isole nel Golfo del Bengala, dove vivono circa 40 mila cattolici su 400 mila abitanti), che dipendono direttamente dal Governo centrale di Delhi -. Ma se non viene fermata in tempo, la violenza contro i cristiani rischia di propagarsi anche in altri Stati indiani notoriamente anticristiani, come il Gujarat, il Madhya Pradesh, il Chattisghar. Alcuni segnali già ci sono».

Monsignor Dias racconta delle minacce di morte fatte dai nazionalisti indù a monsignor Raphael Cheenath, arcivescovo di Cuttack-Bubaneshwar in Orissa: «I fondamentalisti indù hanno intenzione di uccidere un leader cattolico. L’arcivescovo sta facendo tutto il possibile per arginare la violenza, incontrando i politici di Delhi, ma non basta».

«Il mondo deve sapere che in India accadono queste cose – afferma il vescovo di Port Blair -. Quanto sta succedendo è assurdo. In una democrazia con un governo laico ogni religione dovrebbe avere la sua libertà». A suo avviso sarebbe necessaria una maggiore pressione diplomatica a livello internazionale.

Questo malgrado la condanna delle violenze da parte del Governo indiano e l’invio di una forza speciale di polizia. «Hanno agito un po’ in ritardo e non in maniera adeguata», secondo il vescovo. Ora la situazione in Orissa sembra più tranquilla, ma c’è ancora qualche aggressione nei campi dei rifugiati. «La gente non vuole stare lì perché si sente minacciata», conferma il vescovo.

Nell’arcipelago delle Andamane e Nicobare la situazione è tranquilla. «Dopo le violenze in Orissa – racconta – ho incontrato i rappresentanti dei mezzi di comunicazione locali e tutti hanno condannato l’accaduto. Poi il 4 settembre abbiamo organizzato una processione insieme ad altri leader cristiani e a 12 rappresentanti delle altre religioni. Il governatore delle Andamane ci ha assicurato che qui non succederà».

I segnali di qualcosa che non va, nell’ambito delle libertà e dei diritti, si leggono però anche da piccoli aneddoti. Può capitare, per esempio, a una semplice turista (per caso anche giornalista) in vacanza in alcune zone dell’India, di sentirsi dire in aeroporto, quando informa le autorità di essere ospite qualche giorno in una comunità cattolica: «Prima di entrare deve passare per l’ufficio immigrazione e rispondere ad alcune domande». E giù una trafila di botta e risposta, indirizzi, diffidenze. Che verranno verificati via via durante la permanenza con visite delle forze dell’ordine a domicilio, controlli di passaporti e permessi durante gli spostamenti.

«Succede sempre così, ogni volta che abbiamo visite – non si meraviglia il vescovo Dias -. Hanno paura che facciamo conversioni. Ma noi ci siamo sempre e solo occupati di coloro che sono già cattolici, anche se minoranza. Non abbiamo bisogno di fare proselitismo».

Il timore delle conversioni è presente un po’ ovunque nel sub-continente. I missionari cattolici, il più delle volte rispettosi delle reciproche identità e molto impegnati nel dialogo interreligioso, sono spesso sottoposti a numerose forme di controllo da parte della polizia, pena l’espulsione dal Paese. In alcuni Stati come in Rajasthan, Maharastra, Tamil Nadu, si è perfino discusso a lungo di leggi contro le conversioni.

Per rassicurare le frange più nazionaliste e le amministrazioni basterebbe ascoltare le parole di padre Carlo Torriani, milanese, classe 1935, sacerdote del Pontificio istituto missioni estere e missionario a Mumbai con i lebbrosi dal 1969. «Sono stato io convertito dall’India e dal suo popolo», ci precisa nel suo ashram interreligioso.

E a conferma del suo amore per i poveri e per questa popolazione, decisamente amabile, nel 1981 ha scelto di diventare cittadino indiano. «Non possiamo pretendere di convertire gli altri – sottolinea – se prima non convertiamo noi stessi». Una fede che non guarda ai numeri dei battezzati, ma alla testimonianza personale, all’impegno comune per la giustizia e alla condivisione di una stessa umanità e aspirazione al divino. Nonostante la differenza dei credi e dei riti.