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Iraq, il grande esodo

Circa 4 milioni di iracheni hanno dovuto abbandonare le loro case e cercar rifugio altrove, o nella vicina provincia o all'estero. Chi rimane vive il degrado della vita civile

5 Giugno 2008

28/02/2008

di Rosangela VEGETTI

Quando è cominciata l’ultima guerra in Iraq, nel marzo 2003, quasi due milioni di cittadini già erano in esodo: uno stillicidio di persone in fuga dalle persecuzioni e violenze del regime di Saddam Hussein, dalla coscrizione obbligatoria per il tragico conflitto contro l’Iran e la guerra del Golfo del 1991, e dalle sanzioni imposte al Paese dall’Occidente.

A tutto ciò si è aggiunta un’altra guerra, con l’arrivo delle truppe internazionali e l’esplosione progressiva del settarismo interno che l’ha trasformata in guerra civile. «Gli ultimi due anni – si legge nelle relazioni dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati – sono stati teatro di reiterati tentativi, tragicamente riusciti, da parte degli estremisti di tutti i fronti per scatenare una violenza settaria massiccia e diffusa, per far insorgere la società irachena contro se stessa perché si dilaniasse. Le operazioni e i combattimenti attuati dai corpi militari per rintuzzare tali tentativi hanno contribuito al ciclo di distruzione e di esodo della popolazione».

Per gli iracheni sono ormai trent’anni di tormenti. Non c’è da stupirsi che vogliano fuggire. E gli indicatori socio-economici non danno certo buone speranze: ogni giorno almeno un centinaio di persone muore violentemente; due adulti su cinque hanno subìto traumi e ferite, metà della popolazione in età lavorativa èdi fatto senza lavoro, molte scuole sono chiuse per questioni di sicurezza, migliaia di medici, professori e professionisti sono stati assassinati e molti altri sono fuggiti per salvarsi la vita.

Tale condizione di instabilità e di insicurezza ricade sull’intera regione medio-orientale: agli inizi del 2007 oltre due milioni di iracheni si erano dispersi nei Paesi confinanti (Siria e Giordania), andando ad aggiungersi ai quattro milioni di palestinesi profughi e agli altri due milioni di iracheni sradicati entro il proprio territorio nazionale. Una marea di persone in esodo, nella povertà e nella disperazione.

«Mai avrei creduto a tale differenza tra le persone. Io sono sunnita e mia moglie sciita – testimonia un giovane di Baghdad -. Mi hanno minacciato di morte se non avessi divorziato; abbiamo dovuto abbandonare il quartiere dove abitavamo, un tempo pacifico e misto, oggi a maggioranza sunnita. Mia moglie è tornata dalla sua famiglia in zona sciita e io abito da amici in un quartiere sunnita. Sto cercando una casa, ma è difficile a Baghdad trovarne una per poter vivere insieme e accettati da tutti».

E pensare che la società irachena si è costituita da secoli in maniera mista, con diverse etnìe, religioni e culture… Ma ora la violenza più terribile sta dividendo e distruggendo ogni convivenza. Non resta che fuggire o morire. E chi parte oggi è più povero di quelli partiti nel passato, perché già depauperato di ogni bene.

Questa violenza – a detta di osservatori internazionali e di cittadini iracheni – non è spontanea né tantomeno popolare, ma provocata e alimentata dai religiosi più estremisti, mentre la voce di quelli moderati sembra sempre più debole e inascoltata; così numerose comunità locali, sia sciite che sunnite, organizzano comitati di difesa per proteggersi.

Ma per sopperire alla mancanza di fondi necessari alle armi, ai generatori di elettricità, al combustibile, cadono nelle braccia dei gruppi armati settari ed estremisti, e così il circolo tragico si perpetua e rafforza. Sorte ancora più tragica è poi riservata alle minoranze etnico-culturali presenti in Iraq, che non hanno alcun riparo sociale o politico.

A fronte di questa situazione che sembra senza vie d’uscita, le statistiche mostrano un atteggiamento di poca accoglienza, se non di aperto rifiuto, da parte dei Paesi europei e dei più industrializzati verso i fuggiaschi iracheni. A guadagnare sono i “trasportatori” clandestini, che promettono di traghettarli in territori sicuri lucrando sulla loro disperazione.