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«La socialità supera la repressione»

La testimonianza di don Davide Caldirola, responsabile della comunità pastorale di S. Maria Beltrade e S. Gabriele nel decanato Turro di Milano

5 Giugno 2008

16/05/2008

«Distinguerei due aspetti facendo riferimento al mio quartiere: da una parte bisogno di sicurezza per alcuni vuol dire un po’ di quiete, perché sono infastiditi dal vedere le strade sporche o sentire la gente che di notte gira ubriaca. Si è insicuri perché si ha l’impressione di non potere mai riposare. Dall’altra, invece, è legato ai fatti di cronaca: la gente è preoccupata, questo è vero, anche se all’esasperazione dei toni a volte il passaggio è breve».

Don Davide Caldirola è il responsabile della comunità pastorale di S. Maria Beltrade e S. Gabriele, nel decanato Turro di Milano. Vive a contatto con la gente, sente gli umori, le paure e le speranze. Non esita a sottolineare che «è lecito ed è doveroso a volte dire che si vive in una città non sicura. Se faccio riferimento soltanto alla mia chiesa, ho avuto tre furti negli ultimi tre mesi. Tutte le volte che sono andato dai carabinieri o dalla polizia era pieno di gente che presentava denunce. C’è oggettivamente un’insicurezza diffusa».

Eppure bisogna andare oltre la superficie per guardare più in profondità. «Qualche volta però ho l’impressione che tutto venga molto esasperato, che le notizie circolano dando un rilievo sempre molto crudo. Insistendo sul fatto che siamo insicuri, che le cose non vanno bene, si fatica a trovare invece qualche segno del molto bene che ci si vuole, anche nei nostri quartieri, nelle nostre città».

Tanti invocano provvedimenti di tolleranza zero. Eppure don Caldirola mette in guardia: «Non si può rispondere a questa insicurezza semplicemente domandando repressione, ma intensificando l’attenzione sociale delle persone, anche dei cristiani. Sicuramente non arginano la malavita o il traffico della droga, però permettono di vivere meglio».

Un impegno che deve vedere i cattolici in prima linea: «Penso sia un compito proprio delle comunità cristiane ritrovare da una parte un impegno sociale che ci faccia diventare protagonisti dei nostri quartieri. Dall’altra – e lo possono fare tutti, dai bambini agli anziani – ristabilire legami più coesi anche all’interno degli stessi condomini. Quando qualcuno ci prova, vive meglio anche se è in un quartiere “insicuro”».

La zona di viale Monza è ad alta densità di presenze straniere. «Allora – sottolinea don Davide – un conto è se parliamo di famiglie che stanno faticosamente integrandosi, aiutate anche dai nostri oratori. Un altro è se parliamo di quelle persone che arrivano alla disperazione: vivono in appartamenti di proprietari italiani che sfruttano la loro presenza, perché sono clandestini. O per strada e, non avendo nulla, finiscono per trafficare e per rubare. Anche qui forse occorre uno sguardo più ampio: l’integrazione avviene per canali normali, che sono la scuola e l’oratorio. Il cambiamento avviene quando si capisce che lo straniero ha un nome e un cognome. Quando non è più il filippino del piano di sopra o il rumeno della casa di fronte o l’egiziano che abita dall’altra parte della strada…». (p.n.)