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Società

Giovani, invisibili e soli

Per molti di loro rimane l'incubo della precarietà

Andrea CASAVECCHIA Redazione

3 Luglio 2009

In un mercato del lavoro aperto come quello che ormai da oltre dieci anni si sta realizzando in Italia, uno dei pericoli in cui più di altri si corre il rischio di incappare è quello della solitudine. I lavoratori “atipici”, infatti, sono sempre di più, come dimostrano alcuni dati del Censis, pubblicati durante la presentazione di “Un mese di sociale: oltre l’adattamento”.
L’invisibile moltitudine del paralavoro descritta dall’Istituto di ricerca conta oltre 4 milioni e 600 mila lavoratori di mezzo, né carne, né pesce: non precisamente autonomi, tantomeno dipendenti. Questi lavoratori no-standard raggiungono il 20% del totale dell’occupazione complessiva del nostro Paese. La costituiscono soprattutto giovani e donne, immigrati e over 50, proprio le fasce sociali più deboli per la struttura delle nostre forze lavoro. E così, purtroppo, vi rimangono con i loro contratti temporanei. Ci si ritrovano i dipendenti con contratto a termine, i collaboratori a progetto e quelli occasionali, i “consulenti” che lavorano con un unico committente, oppure autonomi, che però devono sottostare a vincoli di orario e di presenza fissati dai loro clienti.
L’introduzione della flessibilità nel mondo della produzione finora ha portato a questa varietà indeterminata. Entrati di soppiatto per rilanciare l’occupazione in un mercato rigido e monolitico, oggi le figure cosiddette atipiche sono una realtà estremamente importante per le nostre imprese, ma godono anche di pochi diritti e sono i primi soggetti a passare i costi di una crisi globale o di una semplice ristrutturazione d’azienda. Questa solitudine fatica a costruire una sua rappresentanza proprio per l’incapacità di costruire legami sociali forti nei luoghi di lavoro vissuti nella consapevolezza del breve termine.
Per queste persone che si barcamenano tra un impiego e l’altro, spesso senza avere una strategia precisa, la precarietà è un incubo che purtroppo si può facilmente realizzare. Il lavoro che per più di una generazione nel nostro Paese è stato un volano per garantire diritti di cittadinanza, oggi, per tanti, diventa un segno di fragilità.
Per uscire da questa contraddizione occorre dare vita a una vera e complessa riforma del lavoro che possa avviare un confronto e un dialogo aperto fra le parti sociali senza pregiudizi o stereotipi. Se si vogliono veramente gettare le basi per garantire a ogni persona un lavoro dignitoso, occorre abbattere le barriere ideologiche da una parte e dall’altra: sembrano superate nelle dichiarazioni di intenti, ma poi si solidificano frequentemente quando si tratta di costruire imprese che siano comunità di uomini e non luoghi di conflitto tra datori di lavoro e manodopera.
La flessibilità non può diventare precarietà della vita, ma va incanalata in un progetto di flexsecurity, non solo per avvicinare il mondo del lavoro italiano a quello europeo, ma anche per valorizzare le peculiari ricchezze del sistema economico e produttivo italiano. In un mercato del lavoro aperto come quello che ormai da oltre dieci anni si sta realizzando in Italia, uno dei pericoli in cui più di altri si corre il rischio di incappare è quello della solitudine. I lavoratori “atipici”, infatti, sono sempre di più, come dimostrano alcuni dati del Censis, pubblicati durante la presentazione di “Un mese di sociale: oltre l’adattamento”.L’invisibile moltitudine del paralavoro descritta dall’Istituto di ricerca conta oltre 4 milioni e 600 mila lavoratori di mezzo, né carne, né pesce: non precisamente autonomi, tantomeno dipendenti. Questi lavoratori no-standard raggiungono il 20% del totale dell’occupazione complessiva del nostro Paese. La costituiscono soprattutto giovani e donne, immigrati e over 50, proprio le fasce sociali più deboli per la struttura delle nostre forze lavoro. E così, purtroppo, vi rimangono con i loro contratti temporanei. Ci si ritrovano i dipendenti con contratto a termine, i collaboratori a progetto e quelli occasionali, i “consulenti” che lavorano con un unico committente, oppure autonomi, che però devono sottostare a vincoli di orario e di presenza fissati dai loro clienti.L’introduzione della flessibilità nel mondo della produzione finora ha portato a questa varietà indeterminata. Entrati di soppiatto per rilanciare l’occupazione in un mercato rigido e monolitico, oggi le figure cosiddette atipiche sono una realtà estremamente importante per le nostre imprese, ma godono anche di pochi diritti e sono i primi soggetti a passare i costi di una crisi globale o di una semplice ristrutturazione d’azienda. Questa solitudine fatica a costruire una sua rappresentanza proprio per l’incapacità di costruire legami sociali forti nei luoghi di lavoro vissuti nella consapevolezza del breve termine.Per queste persone che si barcamenano tra un impiego e l’altro, spesso senza avere una strategia precisa, la precarietà è un incubo che purtroppo si può facilmente realizzare. Il lavoro che per più di una generazione nel nostro Paese è stato un volano per garantire diritti di cittadinanza, oggi, per tanti, diventa un segno di fragilità.Per uscire da questa contraddizione occorre dare vita a una vera e complessa riforma del lavoro che possa avviare un confronto e un dialogo aperto fra le parti sociali senza pregiudizi o stereotipi. Se si vogliono veramente gettare le basi per garantire a ogni persona un lavoro dignitoso, occorre abbattere le barriere ideologiche da una parte e dall’altra: sembrano superate nelle dichiarazioni di intenti, ma poi si solidificano frequentemente quando si tratta di costruire imprese che siano comunità di uomini e non luoghi di conflitto tra datori di lavoro e manodopera.La flessibilità non può diventare precarietà della vita, ma va incanalata in un progetto di flexsecurity, non solo per avvicinare il mondo del lavoro italiano a quello europeo, ma anche per valorizzare le peculiari ricchezze del sistema economico e produttivo italiano.