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Carcere e società

Il lavoro è un diritto. Anche per i carcerati

L'importanza di un'occupazione anche quale mezzo di recupero della dignità personale e occasione di riscatto. Ma su 8 mila detenuti lombardi, solo poco più di 2000 lavorano

Luisa BOVE Redazione

14 Aprile 2009
all'ingresso del carcere sostano alcune guardie. sullo sfondo parte dell'edificio carcerario.

Tra i tanti problemi che affliggono il carcere quello del lavoro è tra i più dimenticati. E se è vero che l’occupazione è una risorsa, questo vale ancor più per chi vive dietro le sbarre, non solo per l’aspetto economico (chi ha un reddito può anche inviare denaro ai familiari), ma anche come recupero della dignità personale e occasione di riscatto.
Di questi tempi però la crisi si fa sentire anche nei penitenziari. La preoccupazione di Francesca Corso, assessore della Provincia di Milano che si occupa anche dell’integrazione sociale per le persone in carcere, è di «creare le condizioni per assicurare percorsi lavorativi garantendo così il diritto al lavoro». Per questo si dovrebbero conoscere «scolarità, competenze e aspirazioni» dei reclusi e raccogliere questi dati in un registro regionale. Per Giorgio Bertazzini, garante dei detenuti, «occorre puntare sulla formazione personale anche per ridurre la recidiva».
Attualmente su 8 mila detenuti della Lombardia solo 1700 lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria dei singoli istituti come scopini, spesini, cuochi…, altri 500 invece hanno trovato occupazione nelle imprese esterne.
Per mettere in circolo le risorse Luigi Pagano provveditore del Dap della Lombardia, ha creato l’Agenzia “Articolo 27”: «Il nome si rifà all’articolo della Costituzione che afferma il principio di attribuire un fine rieducativo alla pena». Attraverso l’Agenzia nascerà anche un data-base con i curricula dei detenuti lombardi, così sarà più facile per le ditte e le cooperative offrire lavoro ai reclusi.
Tra i carcerati c’è anche chi si rimette a studiare e ottiene un diploma o una laurea: per loro ci sarà qualche opportunità in più. «A Bollate, che è un carcere modello – dice Pagano -, hanno preso sul serio la legge del 1975 sul trattamento rieducativo e così l’inserimento sociale del detenuto avviene attraverso il lavoro». Per il provveditore, però, bisogna andare al di là del «lavoro assistito»: «Per questo abbiamo detto alle aziende che non vogliamo l’elemosina, ma offrire occupazione ai detenuti solo se hanno interesse». Nel 2003, per esempio, Telecom è “entrata” a San Vittore, dove ha ottenuto spazi in comodato gratuito e ha dato lavoro a un gruppo di reclusi.
«“Articolo 27” – spiega Pagano – nasce anche per richiamare l’attenzione sul carcere: di solito emergono solo aspetti negativi, mentre noi vogliamo porre l’accento sul lavoro». Ci tiene a far sapere che con la nevicata di gennaio «in poche ore abbiamo inviato detenuti a spalare nelle strade di Milano». Lucia Castellano, direttrice di Bollate, ha scelto 20 reclusi e il magistrato di sorveglianza ha firmato l’autorizzazione in tempi record: «In 30 anni non si era mai visto». C’è quindi «sinergia tra magistrati, carcere e agenzia», assicura Pagano e la speranza è che ora per le ditte disposte a dare lavoro si accorcino i tempi burocratici, «scendendo a 2-3 mesi al massimo». Tra i tanti problemi che affliggono il carcere quello del lavoro è tra i più dimenticati. E se è vero che l’occupazione è una risorsa, questo vale ancor più per chi vive dietro le sbarre, non solo per l’aspetto economico (chi ha un reddito può anche inviare denaro ai familiari), ma anche come recupero della dignità personale e occasione di riscatto.Di questi tempi però la crisi si fa sentire anche nei penitenziari. La preoccupazione di Francesca Corso, assessore della Provincia di Milano che si occupa anche dell’integrazione sociale per le persone in carcere, è di «creare le condizioni per assicurare percorsi lavorativi garantendo così il diritto al lavoro». Per questo si dovrebbero conoscere «scolarità, competenze e aspirazioni» dei reclusi e raccogliere questi dati in un registro regionale. Per Giorgio Bertazzini, garante dei detenuti, «occorre puntare sulla formazione personale anche per ridurre la recidiva».Attualmente su 8 mila detenuti della Lombardia solo 1700 lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria dei singoli istituti come scopini, spesini, cuochi…, altri 500 invece hanno trovato occupazione nelle imprese esterne.Per mettere in circolo le risorse Luigi Pagano provveditore del Dap della Lombardia, ha creato l’Agenzia “Articolo 27”: «Il nome si rifà all’articolo della Costituzione che afferma il principio di attribuire un fine rieducativo alla pena». Attraverso l’Agenzia nascerà anche un data-base con i curricula dei detenuti lombardi, così sarà più facile per le ditte e le cooperative offrire lavoro ai reclusi.Tra i carcerati c’è anche chi si rimette a studiare e ottiene un diploma o una laurea: per loro ci sarà qualche opportunità in più. «A Bollate, che è un carcere modello – dice Pagano -, hanno preso sul serio la legge del 1975 sul trattamento rieducativo e così l’inserimento sociale del detenuto avviene attraverso il lavoro». Per il provveditore, però, bisogna andare al di là del «lavoro assistito»: «Per questo abbiamo detto alle aziende che non vogliamo l’elemosina, ma offrire occupazione ai detenuti solo se hanno interesse». Nel 2003, per esempio, Telecom è “entrata” a San Vittore, dove ha ottenuto spazi in comodato gratuito e ha dato lavoro a un gruppo di reclusi.«“Articolo 27” – spiega Pagano – nasce anche per richiamare l’attenzione sul carcere: di solito emergono solo aspetti negativi, mentre noi vogliamo porre l’accento sul lavoro». Ci tiene a far sapere che con la nevicata di gennaio «in poche ore abbiamo inviato detenuti a spalare nelle strade di Milano». Lucia Castellano, direttrice di Bollate, ha scelto 20 reclusi e il magistrato di sorveglianza ha firmato l’autorizzazione in tempi record: «In 30 anni non si era mai visto». C’è quindi «sinergia tra magistrati, carcere e agenzia», assicura Pagano e la speranza è che ora per le ditte disposte a dare lavoro si accorcino i tempi burocratici, «scendendo a 2-3 mesi al massimo». – Messa dell’Arcivescovo a BollateGiovani e carcereCasa della Carità: dopo la penaElogio dell’accoglienzaIn un film la vita dietro le sbarre –