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Referendum

L’Europa dopo il “sì” dell’Irlanda

L'Ue deve ancor più conquistare stima e fiducia

di Gianni BORSA Redazione

6 Ottobre 2009

Due terzi degli elettori irlandesi hanno detto “sì” al Trattato di Lisbona, facendo tirare un sospiro di sollievo nelle sedi comunitarie di Bruxelles e Strasburgo. Il via libera del 2 ottobre alla “mini costituzione” fa dimenticare la bocciatura del giugno 2008, con la quale Dublino bloccò una serie di riforme ritenute necessarie per far funzionare l’Ue con 27 Stati aderenti e 500 milioni di cittadini. Ora rimangono da superare due ostacoli minori: i presidenti di Polonia e Repubblica ceca, entrambi europerplessi, devono infatti apporre la loro firma in calce al testo, affinché questo possa definitivamente essere ratificato ed entrare in vigore nei prossimi mesi. La “pressione psicologica” che tutta l’Europa sta esercitando su Varsavia e Praga dovrebbe essere sufficiente per quest’ultimo passo formale.
L’esito negativo del primo referendum irlandese si poteva ricondurre a uno scetticismo dilagante verso l’Ue, sospettata di voler dettare le regole all’“isola verde” su materie di stretta competenza nazionale (vita, famiglia, fisco, neutralità militare). Sciolte queste paure, non rimaneva che una valutazione: le sfide del tempo presente non si affrontano da soli e l’Irlanda – come ogni altro Paese – può fare ben poco se rimane isolata di fronte a problemi quali la crisi economica, la sicurezza internazionale, le migrazioni… Il populismo e il nazionalismo, che avevano avuto partita vinta la prima volta, hanno dovuto piegarsi alla concretezza e a una visione più ampia delle relazioni internazionali, dei mercati, delle nuove frontiere demografiche e culturali.
«Abbiamo compiuto un passo decisivo per un’Irlanda più forte e anche per un’Europa più forte», ha affermato il premier irlandese Brian Cowen, finalmente sorridente dopo mesi di tensioni interne e di rapporti tesi con il resto dell’Unione europea. Quest’ultima può finalmente dar corpo alle novità decise a Lisbona, a partire dalla nomina del presidente “stabile” del Consiglio Ue, punto di riferimento politico comunitario e volto dei 27 sulla scena mondiale.
Eppure… Non è tutto bene ciò che finisce bene. L’antieuropeismo resta forte nell’Europa di oggi, non tanto per i limiti (pur riconoscibili) del processo di integrazione, quanto per quella sorta di neo-nazionalismo che attraversa le società contemporanee, le quali si sentono minacciate dalla globalizzazione e tendono a rifugiarsi in confini ben definiti, siano essi politici, culturali, economici, persino religiosi. Temendo di perdere la propria identità, si rischia di impoverirla rifugiandosi in anguste fortezze nazionali o addirittura regionali, proprio in un’epoca che certo richiede identità solide, ma eguale capaci di confronto, di apertura e, appunto, di integrazione. In questo senso una Ue che funziona, sulla base di valori e obiettivi condivisi, può essere un antidoto, certo non l’unico, alle paure collettive del terzo millennio. Due terzi degli elettori irlandesi hanno detto “sì” al Trattato di Lisbona, facendo tirare un sospiro di sollievo nelle sedi comunitarie di Bruxelles e Strasburgo. Il via libera del 2 ottobre alla “mini costituzione” fa dimenticare la bocciatura del giugno 2008, con la quale Dublino bloccò una serie di riforme ritenute necessarie per far funzionare l’Ue con 27 Stati aderenti e 500 milioni di cittadini. Ora rimangono da superare due ostacoli minori: i presidenti di Polonia e Repubblica ceca, entrambi europerplessi, devono infatti apporre la loro firma in calce al testo, affinché questo possa definitivamente essere ratificato ed entrare in vigore nei prossimi mesi. La “pressione psicologica” che tutta l’Europa sta esercitando su Varsavia e Praga dovrebbe essere sufficiente per quest’ultimo passo formale.L’esito negativo del primo referendum irlandese si poteva ricondurre a uno scetticismo dilagante verso l’Ue, sospettata di voler dettare le regole all’“isola verde” su materie di stretta competenza nazionale (vita, famiglia, fisco, neutralità militare). Sciolte queste paure, non rimaneva che una valutazione: le sfide del tempo presente non si affrontano da soli e l’Irlanda – come ogni altro Paese – può fare ben poco se rimane isolata di fronte a problemi quali la crisi economica, la sicurezza internazionale, le migrazioni… Il populismo e il nazionalismo, che avevano avuto partita vinta la prima volta, hanno dovuto piegarsi alla concretezza e a una visione più ampia delle relazioni internazionali, dei mercati, delle nuove frontiere demografiche e culturali.«Abbiamo compiuto un passo decisivo per un’Irlanda più forte e anche per un’Europa più forte», ha affermato il premier irlandese Brian Cowen, finalmente sorridente dopo mesi di tensioni interne e di rapporti tesi con il resto dell’Unione europea. Quest’ultima può finalmente dar corpo alle novità decise a Lisbona, a partire dalla nomina del presidente “stabile” del Consiglio Ue, punto di riferimento politico comunitario e volto dei 27 sulla scena mondiale.Eppure… Non è tutto bene ciò che finisce bene. L’antieuropeismo resta forte nell’Europa di oggi, non tanto per i limiti (pur riconoscibili) del processo di integrazione, quanto per quella sorta di neo-nazionalismo che attraversa le società contemporanee, le quali si sentono minacciate dalla globalizzazione e tendono a rifugiarsi in confini ben definiti, siano essi politici, culturali, economici, persino religiosi. Temendo di perdere la propria identità, si rischia di impoverirla rifugiandosi in anguste fortezze nazionali o addirittura regionali, proprio in un’epoca che certo richiede identità solide, ma eguale capaci di confronto, di apertura e, appunto, di integrazione. In questo senso una Ue che funziona, sulla base di valori e obiettivi condivisi, può essere un antidoto, certo non l’unico, alle paure collettive del terzo millennio.