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Esteri

Europa, il segnale svedese

Venti deputati dell'estrema destra per la prima volta nel Parlamento nazionale

di Gianni BORSA Redazione

24 Settembre 2010

Non è difficile intravvedere delle connessioni tra l’esito delle elezioni svedesi di domenica 19 settembre, i risultati di altre recenti tornate elettorali in vari Paesi europei, fino ad alcune diatribe politiche che agitano l’Ue, a partire dallo scontro tra il presidente francese Sarkozy e la Commissione Barroso sulla situazione dei rom.
A Stoccolma i due partiti più forti, ossia i liberalconservatori e i socialdemocratici, insieme raccolgono il 95% dei voti popolari, eppure l’attenzione politica e mediatica si concentra su quei 20 deputati che l’estrema destra dei “Democratici di Svezia”, formazione con venature xenofobe e razziste, porta per la prima volta nel parlamento nazionale.
Una Svezia tradizionalmente tollerante ed economicamente solida (benché la crisi sia arrivata anche a quelle latitudini) si risveglia impaurita dagli stranieri, in realtà piuttosto numerosi, che vivono tra i suoi confini. Perché? È la stessa domanda che ci si è posti di recente per un risultato elettorale simile registrato nei Paesi Bassi. E anche altri Stati fanno i conti con un progressivo movimento dell’opinione pubblica (che poi si esplicita nel voto politico) verso posizioni antistranieri, oppure più semplicemente populiste, localiste, nazionaliste. Non mancano forme di più evidente malcontento che si esprimono nel sostegno a tesi separatiste: il Belgio ne sa qualcosa. Non c’è Paese dell’Ue che può dirsi al riparo da fenomeni di questo tipo: vale per la Slovacchia e la Gran Bretagna, per l’Ungheria e la Spagna, per l’Austria e l’Italia, fino a Danimarca, Bulgaria o Cipro.
La crisi economica e la disoccupazione hanno certamente contribuito a inasprire i sentimenti legati alla difesa dei propri – spesso legittimi – interessi: quando le certezze della vita quotidiana vengono meno o sono minacciate, si tende a innalzare barriere, a voltare le spalle all’“altro”, agli “altri”, specialmente se si tratta di persone o gruppi lontani, per le ragioni più diverse, da sé, estranei alla propria famiglia, o alla nazione, alla lingua madre, alla storia o al bagaglio culturale che ci si porta dentro. Così un sentire psicologico si trasforma dapprima in atteggiamento sociale diffuso e dunque in movimento e forza politica. La quale può infine pretendere, a seconda dei casi, che gli “altri” si integrino nella realtà che li accoglie, oppure che rinuncino (in tal caso non è più vera integrazione, rispettosa delle differenze) agli usi e costumi originari, alla lingua materna, persino al credo religioso (alcuni dibattiti in Francia a proposito del divieto del burqa si orientavano in tale direzione).
Purtroppo le tensioni sociali e l’instabilità politica quasi sempre accompagnano trasformazioni culturali di questo genere. Ecco dunque che il voto svedese pone, ancora una volta, interrogativi che conosciamo bene in Europa: cosa significa convivenza e integrazione? quali impegni, disponibilità e fatiche esse richiedono? come è possibile coniugare sicurezza, rispetto delle leggi, sviluppo e difesa dei diritti di tutti, immigrati compresi? Non è difficile intravvedere delle connessioni tra l’esito delle elezioni svedesi di domenica 19 settembre, i risultati di altre recenti tornate elettorali in vari Paesi europei, fino ad alcune diatribe politiche che agitano l’Ue, a partire dallo scontro tra il presidente francese Sarkozy e la Commissione Barroso sulla situazione dei rom.A Stoccolma i due partiti più forti, ossia i liberalconservatori e i socialdemocratici, insieme raccolgono il 95% dei voti popolari, eppure l’attenzione politica e mediatica si concentra su quei 20 deputati che l’estrema destra dei “Democratici di Svezia”, formazione con venature xenofobe e razziste, porta per la prima volta nel parlamento nazionale.Una Svezia tradizionalmente tollerante ed economicamente solida (benché la crisi sia arrivata anche a quelle latitudini) si risveglia impaurita dagli stranieri, in realtà piuttosto numerosi, che vivono tra i suoi confini. Perché? È la stessa domanda che ci si è posti di recente per un risultato elettorale simile registrato nei Paesi Bassi. E anche altri Stati fanno i conti con un progressivo movimento dell’opinione pubblica (che poi si esplicita nel voto politico) verso posizioni antistranieri, oppure più semplicemente populiste, localiste, nazionaliste. Non mancano forme di più evidente malcontento che si esprimono nel sostegno a tesi separatiste: il Belgio ne sa qualcosa. Non c’è Paese dell’Ue che può dirsi al riparo da fenomeni di questo tipo: vale per la Slovacchia e la Gran Bretagna, per l’Ungheria e la Spagna, per l’Austria e l’Italia, fino a Danimarca, Bulgaria o Cipro.La crisi economica e la disoccupazione hanno certamente contribuito a inasprire i sentimenti legati alla difesa dei propri – spesso legittimi – interessi: quando le certezze della vita quotidiana vengono meno o sono minacciate, si tende a innalzare barriere, a voltare le spalle all’“altro”, agli “altri”, specialmente se si tratta di persone o gruppi lontani, per le ragioni più diverse, da sé, estranei alla propria famiglia, o alla nazione, alla lingua madre, alla storia o al bagaglio culturale che ci si porta dentro. Così un sentire psicologico si trasforma dapprima in atteggiamento sociale diffuso e dunque in movimento e forza politica. La quale può infine pretendere, a seconda dei casi, che gli “altri” si integrino nella realtà che li accoglie, oppure che rinuncino (in tal caso non è più vera integrazione, rispettosa delle differenze) agli usi e costumi originari, alla lingua materna, persino al credo religioso (alcuni dibattiti in Francia a proposito del divieto del burqa si orientavano in tale direzione).Purtroppo le tensioni sociali e l’instabilità politica quasi sempre accompagnano trasformazioni culturali di questo genere. Ecco dunque che il voto svedese pone, ancora una volta, interrogativi che conosciamo bene in Europa: cosa significa convivenza e integrazione? quali impegni, disponibilità e fatiche esse richiedono? come è possibile coniugare sicurezza, rispetto delle leggi, sviluppo e difesa dei diritti di tutti, immigrati compresi?