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Summit

G20 e crisi, troppo poco

Un risultato che non consente ottimismi

di Riccardo MORO Redazione

19 Novembre 2010

La Germania registra la maggiore crescita economica dell’area euro. Ma a ben guardare le sue performance mimetizzano qualche debolezza. Ciò che cresce in Germania sono le esportazioni, tirate dalla domanda di macchine e tecnologia da parte dei Paesi emergenti. Se quella domanda dovesse rallentare il barometro dell’economia tedesca tornerebbe a puntare repentinamente verso brutto. Il mercato interno infatti ristagna, trattenuto anche dalla sfiducia verso un sistema bancario mostratosi molto vulnerabile e salvato solo dal denaro pubblico pompato dal governo. Impressione fecero in questo senso i disastrosi risultati di diverse banche legate ai laender tedeschi, gestite con stile e cultura che ricorda pericolosamente il “ritorno al territorio” (leggi “ai partiti del territorio”) che con dubbia retorica si ascolta sempre di più nel dibattito intorno alle fondazioni bancarie del Nord Italia. Dunque la Merkel ha bisogno di due cose: continuare a esportare – e per questo le occorre un euro debole – e agevolare le banche tedesche attirando denaro in Germania ma tenendo bassi i tassi di interesse. In questa luce prendono senso le posizioni sempre più isolate assunte dal cancelliere tedesco in questi mesi. Rallentare e ostacolare ogni possibile solidarietà agli altri stati europei (prima la Grecia, vittima di un cinico gioco speculativo, oggi l’Irlanda che ha invece un sistema bancario realmente vulnerabile) mostrando la mascella volitiva che fu della Thatcher: in questo modo i tassi di interesse sui titoli pubblici greci, irlandesi, portoghesi, spagnoli e italiani sono costretti a salire (per premiare il rischio che correrebbe chi li acquista) e quelli sui titoli tedeschi rimangono bassi attirando gli investitori con meno propensione al rischio. Sulle piazze tedesche arriva denaro fresco a costi ragionevoli, lo stato paga poco e le banche indebitate mantengono una struttura di tassi di interesse non onerosa ripianando i propri buchi. In più, ciò che conta per Angela, l’euro accumula sfiducia e scende, favorendo le esportazioni tedesche, senza le quali il gioco finisce. Un esempio interessante di senso dello stato, capacità di lettura globale e ricerca dell’interesse comune, che umilia la patria e il ruolo che fu occupato da Adenauer, Willy Brandt e Helmut Kohl.
Anche la Cina vive di esportazioni, con un mercato interno in crescita, ma largamente insufficiente ad assorbire la sua capacità produttiva. Per questo mantiene la propria moneta – il cui valore non è determinato dal mercato, ma definito dal governo – a valori sproporzionatamente bassi, che le garantiscono le vendite all’estero. In cambio incassa dollari che non investe in casa per far crescere economia, benessere e democrazia, ma nel mercato internazionale, in particolare nell’acquisto dei titoli pubblici Usa.
La banca centrale americana ha lanciato nello scorse settimane una operazione di quantative easing: acquisterà titoli pubblici del governo Usa per un totale di 600 miliardi. In questo modo (incassando titoli e immettendo nel mercato finanziario dollari) dà un segnale espansivo. Maggiore liquidità favorisce la domanda interna e più dollari in circolazione possono ridurre il tasso di cambio, agevolando le esportazioni.
Tassi di cambio che fluttuano in base al mercato aiutano a riequilibrare gli scambi commerciali (se un paese esporta molto, la sua moneta è richiesta e aumenta di valore, rendendo più cari i suoi prodotti e riducendo le esportazioni; viceversa nel caso opposto). La Cina si è sempre rifiutata di ritoccare il valore della sua moneta, il renmimbi, per continuare a drogare le sue esportazioni, prevalentemente vendute negli Usa. Gli Usa, stufi della grave disoccupazione alimentata da questa situazione, hanno deciso di agire. Con queste premesse si può capire perché il vertice del G20 a Seul della settimana scorsa non abbia raggiunto intese significative. Cina e Germania hanno cercato di far apparire gli Stati Uniti come il paese che agisce scorrettamente, prendendo decisioni unilaterali. Ma chi è responsabile di una situazione insostenibile? L’attuale Amministrazione Usa, che da due anni predica la necessità di trovare accordi globali e presenta proposte formali, come il meccanismo di riequilibrio obbligatorio dei cambi in caso di eccessivi squilibri commerciali? O chi fa il pesce in barile profittando delle vulnerabilità altrui per irrobustirsi, senza nessuna cura per ciò che potrà capitare domani?
L’unico successo del vertice è stato il riequilibrio della rappresentanza nel FMI in favore dei paesi emergenti. Troppo poco. Senza una strategia comune il rischio di una nuova crisi, con danni gravi per tutti, Cina e Germania comprese, è altissimo. Occorrono scelte innovative che guardino al futuro e alla sostenibilità economica, sociale e ambientale per tutti. Anche il Papa ha lanciato un appello in quella direzione con una lettera prima del vertice e una preghiera all’Angelus di domenica. Pochi sembrano ascoltare. La Germania registra la maggiore crescita economica dell’area euro. Ma a ben guardare le sue performance mimetizzano qualche debolezza. Ciò che cresce in Germania sono le esportazioni, tirate dalla domanda di macchine e tecnologia da parte dei Paesi emergenti. Se quella domanda dovesse rallentare il barometro dell’economia tedesca tornerebbe a puntare repentinamente verso brutto. Il mercato interno infatti ristagna, trattenuto anche dalla sfiducia verso un sistema bancario mostratosi molto vulnerabile e salvato solo dal denaro pubblico pompato dal governo. Impressione fecero in questo senso i disastrosi risultati di diverse banche legate ai laender tedeschi, gestite con stile e cultura che ricorda pericolosamente il “ritorno al territorio” (leggi “ai partiti del territorio”) che con dubbia retorica si ascolta sempre di più nel dibattito intorno alle fondazioni bancarie del Nord Italia. Dunque la Merkel ha bisogno di due cose: continuare a esportare – e per questo le occorre un euro debole – e agevolare le banche tedesche attirando denaro in Germania ma tenendo bassi i tassi di interesse. In questa luce prendono senso le posizioni sempre più isolate assunte dal cancelliere tedesco in questi mesi. Rallentare e ostacolare ogni possibile solidarietà agli altri stati europei (prima la Grecia, vittima di un cinico gioco speculativo, oggi l’Irlanda che ha invece un sistema bancario realmente vulnerabile) mostrando la mascella volitiva che fu della Thatcher: in questo modo i tassi di interesse sui titoli pubblici greci, irlandesi, portoghesi, spagnoli e italiani sono costretti a salire (per premiare il rischio che correrebbe chi li acquista) e quelli sui titoli tedeschi rimangono bassi attirando gli investitori con meno propensione al rischio. Sulle piazze tedesche arriva denaro fresco a costi ragionevoli, lo stato paga poco e le banche indebitate mantengono una struttura di tassi di interesse non onerosa ripianando i propri buchi. In più, ciò che conta per Angela, l’euro accumula sfiducia e scende, favorendo le esportazioni tedesche, senza le quali il gioco finisce. Un esempio interessante di senso dello stato, capacità di lettura globale e ricerca dell’interesse comune, che umilia la patria e il ruolo che fu occupato da Adenauer, Willy Brandt e Helmut Kohl.Anche la Cina vive di esportazioni, con un mercato interno in crescita, ma largamente insufficiente ad assorbire la sua capacità produttiva. Per questo mantiene la propria moneta – il cui valore non è determinato dal mercato, ma definito dal governo – a valori sproporzionatamente bassi, che le garantiscono le vendite all’estero. In cambio incassa dollari che non investe in casa per far crescere economia, benessere e democrazia, ma nel mercato internazionale, in particolare nell’acquisto dei titoli pubblici Usa.La banca centrale americana ha lanciato nello scorse settimane una operazione di quantative easing: acquisterà titoli pubblici del governo Usa per un totale di 600 miliardi. In questo modo (incassando titoli e immettendo nel mercato finanziario dollari) dà un segnale espansivo. Maggiore liquidità favorisce la domanda interna e più dollari in circolazione possono ridurre il tasso di cambio, agevolando le esportazioni.Tassi di cambio che fluttuano in base al mercato aiutano a riequilibrare gli scambi commerciali (se un paese esporta molto, la sua moneta è richiesta e aumenta di valore, rendendo più cari i suoi prodotti e riducendo le esportazioni; viceversa nel caso opposto). La Cina si è sempre rifiutata di ritoccare il valore della sua moneta, il renmimbi, per continuare a drogare le sue esportazioni, prevalentemente vendute negli Usa. Gli Usa, stufi della grave disoccupazione alimentata da questa situazione, hanno deciso di agire. Con queste premesse si può capire perché il vertice del G20 a Seul della settimana scorsa non abbia raggiunto intese significative. Cina e Germania hanno cercato di far apparire gli Stati Uniti come il paese che agisce scorrettamente, prendendo decisioni unilaterali. Ma chi è responsabile di una situazione insostenibile? L’attuale Amministrazione Usa, che da due anni predica la necessità di trovare accordi globali e presenta proposte formali, come il meccanismo di riequilibrio obbligatorio dei cambi in caso di eccessivi squilibri commerciali? O chi fa il pesce in barile profittando delle vulnerabilità altrui per irrobustirsi, senza nessuna cura per ciò che potrà capitare domani?L’unico successo del vertice è stato il riequilibrio della rappresentanza nel FMI in favore dei paesi emergenti. Troppo poco. Senza una strategia comune il rischio di una nuova crisi, con danni gravi per tutti, Cina e Germania comprese, è altissimo. Occorrono scelte innovative che guardino al futuro e alla sostenibilità economica, sociale e ambientale per tutti. Anche il Papa ha lanciato un appello in quella direzione con una lettera prima del vertice e una preghiera all’Angelus di domenica. Pochi sembrano ascoltare.