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Società

«La precarietà rende insicuri gli affetti e mina i progetti per il futuro»

L'opinione di monsignor Severino Pagani, Vicario episcopale per la Pastorale giovanile

di Pino NARDI Redazione

16 Febbraio 2010

«Ormai la precarietà del lavoro è diventata per molti giovani una componente della loro personalità. È inevitabile che anche la dimensione etica, politica e religiosa dei loro comportamenti ne risenta moltissimo». Lo sostiene monsignor Severino Pagani, Vicario episcopale per la Pastorale giovanile, sottolineando anche il compito di vicinanza della comunità cristiana verso le giovani generazioni.

Quanto il lavoro precario incide sulle scelte di vita dei giovani?
Sono tre le principali dimensioni della vita, che disegnano l’anima dei giovani di oggi. Dio, l’amore e il lavoro. Dio sta ad indicare la questione del senso delle cose e il significato ultimo della vita. Quante domande di senso, quanto entusiasmo e quante depressioni. L’amore mette in campo la realtà relazionale della persona, in rapporto alla famiglia, alle amicizie, al corpo e all’affettività di coppia. Anima del futuro. E il lavoro, nel suo senso ampio di studio, preparazione, inserimento, soddisfazione, retribuzione e ricchezza. Mai come in questi ultimissimi anni si è registrato l’incidenza del problema del lavoro nel cammino educativo dei giovani. Il lavoro – non solo un’occupazione che c’è o che non c’è – sta diventando una dimensione fondamentale dell’intera evoluzione della personalità dei giovani di oggi. La problematicità del lavoro incide moltissimo sulla struttura della loro personalità: crea incertezza, mancanza di progettualità, indecisione negli affetti. Il lavoro li mette di fronte a percorsi infiniti e spesso illusori di preparazione. Questo genera paura di fronte alle responsabilità; consumo di energie psichiche disperse e deboli; favorisce una consumazione degli affetti legata a esperienze a breve termine.

Lei che è a contatto quotidiano con i giovani come coglie questo disagio?
In questi ultimi anni ho avvertito crescere sempre di più, in maniera sorprendente rispetto a tutto il resto, il disagio dei giovani di fronte alla precarietà del lavoro. Tre fatti mi impressionano moltissimo di loro: innanzitutto il senso di umiliazione che provano i giovani, spesso laureati, di fronte a veri e propri lavori praticamene non retribuiti, fatti passare spesso sotto il nome di stage, tirocini, presenze indefinite sul posto di lavoro, mezze promesse, mezzi stipendi. Un’umiliazione, che i giovani tentano di nascondere, ma che li fa soffrire. Secondo, una grande incertezza nella scelta del tipo di studio in rapporto al lavoro, che ci sarà o non ci sarà: non sanno più cosa scegliere di fronte alle facoltà universitarie. E terzo, l’estrema difficoltà a progettare la vita. Ogni progettualità si indebolisce, viaggiano a vista, i grandi ideali si sgonfiano e anche i miti di qualche decennio fa sono vissuti soltanto nella proiezione virtuale. Si accontentano di un happy hour. Ci sono tante buone energie nei giovani, vanno raccolte, più motivate, rese più solidali. Anche se questo da solo non basta.

Quali risposte può dare la comunità cristiana?
Innanzitutto la comunità cristiana deve accorgersi di più come sono i giovani, e quanti ne ha. Poi deve, di fatto, dedicare tempo, spazio e ascolto a loro. Può fare molto intervenendo sull’educazione delle persone singole, fornendo un aiuto e un sostegno psichico e relazionale. Può educare i giovani alla sobrietà della vita, alla solidarietà, a forme di maggiore flessibilità e adattamento anche nel lavoro. Può motivare negli ideali, irrobustire nella volontà, nella tenacia. Ma la comunità cristiana come tale può fare anche molto poco: la questione si sposta sulla società civile come tale. La comunità cristiana deve costruire uomini e donne adulte che siano presenti nella società civile e che lavorino veramente per il bene comune, senza ideologia. Ci vogliono cristiani e non cristiani, uomini e donne di buona volontà, che attraverso le istituzioni ridistribuiscano diversamente le risorse e le ricchezza; ci vuole un’assimilazione culturale della globalizzazione e uno stile di vita più sobrio e più giusto. La forbice si allarga non sola tra ricchi e poveri, ma anche tra giovani e adulti. Ci vuole il buon esempio dalla politica e un sostegno strutturale alle generazioni giovanili. «Ormai la precarietà del lavoro è diventata per molti giovani una componente della loro personalità. È inevitabile che anche la dimensione etica, politica e religiosa dei loro comportamenti ne risenta moltissimo». Lo sostiene monsignor Severino Pagani, Vicario episcopale per la Pastorale giovanile, sottolineando anche il compito di vicinanza della comunità cristiana verso le giovani generazioni.Quanto il lavoro precario incide sulle scelte di vita dei giovani?Sono tre le principali dimensioni della vita, che disegnano l’anima dei giovani di oggi. Dio, l’amore e il lavoro. Dio sta ad indicare la questione del senso delle cose e il significato ultimo della vita. Quante domande di senso, quanto entusiasmo e quante depressioni. L’amore mette in campo la realtà relazionale della persona, in rapporto alla famiglia, alle amicizie, al corpo e all’affettività di coppia. Anima del futuro. E il lavoro, nel suo senso ampio di studio, preparazione, inserimento, soddisfazione, retribuzione e ricchezza. Mai come in questi ultimissimi anni si è registrato l’incidenza del problema del lavoro nel cammino educativo dei giovani. Il lavoro – non solo un’occupazione che c’è o che non c’è – sta diventando una dimensione fondamentale dell’intera evoluzione della personalità dei giovani di oggi. La problematicità del lavoro incide moltissimo sulla struttura della loro personalità: crea incertezza, mancanza di progettualità, indecisione negli affetti. Il lavoro li mette di fronte a percorsi infiniti e spesso illusori di preparazione. Questo genera paura di fronte alle responsabilità; consumo di energie psichiche disperse e deboli; favorisce una consumazione degli affetti legata a esperienze a breve termine.Lei che è a contatto quotidiano con i giovani come coglie questo disagio?In questi ultimi anni ho avvertito crescere sempre di più, in maniera sorprendente rispetto a tutto il resto, il disagio dei giovani di fronte alla precarietà del lavoro. Tre fatti mi impressionano moltissimo di loro: innanzitutto il senso di umiliazione che provano i giovani, spesso laureati, di fronte a veri e propri lavori praticamene non retribuiti, fatti passare spesso sotto il nome di stage, tirocini, presenze indefinite sul posto di lavoro, mezze promesse, mezzi stipendi. Un’umiliazione, che i giovani tentano di nascondere, ma che li fa soffrire. Secondo, una grande incertezza nella scelta del tipo di studio in rapporto al lavoro, che ci sarà o non ci sarà: non sanno più cosa scegliere di fronte alle facoltà universitarie. E terzo, l’estrema difficoltà a progettare la vita. Ogni progettualità si indebolisce, viaggiano a vista, i grandi ideali si sgonfiano e anche i miti di qualche decennio fa sono vissuti soltanto nella proiezione virtuale. Si accontentano di un happy hour. Ci sono tante buone energie nei giovani, vanno raccolte, più motivate, rese più solidali. Anche se questo da solo non basta.Quali risposte può dare la comunità cristiana?Innanzitutto la comunità cristiana deve accorgersi di più come sono i giovani, e quanti ne ha. Poi deve, di fatto, dedicare tempo, spazio e ascolto a loro. Può fare molto intervenendo sull’educazione delle persone singole, fornendo un aiuto e un sostegno psichico e relazionale. Può educare i giovani alla sobrietà della vita, alla solidarietà, a forme di maggiore flessibilità e adattamento anche nel lavoro. Può motivare negli ideali, irrobustire nella volontà, nella tenacia. Ma la comunità cristiana come tale può fare anche molto poco: la questione si sposta sulla società civile come tale. La comunità cristiana deve costruire uomini e donne adulte che siano presenti nella società civile e che lavorino veramente per il bene comune, senza ideologia. Ci vogliono cristiani e non cristiani, uomini e donne di buona volontà, che attraverso le istituzioni ridistribuiscano diversamente le risorse e le ricchezza; ci vuole un’assimilazione culturale della globalizzazione e uno stile di vita più sobrio e più giusto. La forbice si allarga non sola tra ricchi e poveri, ma anche tra giovani e adulti. Ci vuole il buon esempio dalla politica e un sostegno strutturale alle generazioni giovanili.