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Tagli al Terzo settore

«Ma anche il non profit deve ripensarsi»

L'opinione di Johnny Dotti, presidente e amministratore delegato di Welfare Italia Servizi, già presidente del Consorzio nazionale della cooperazione sociale

di Pino NARDI Redazione

23 Novembre 2010

«Le imprese sociali sono chiamate a nuove formule, a trovare diverse modalità di finanziamento, nuove alleanze per generare una cittadinanza capace di autoprodurre servizi». Lo sostiene Johnny Dotti, presidente e amministratore delegato di Welfare Italia Servizi. In passato è stato ad e presidente di Cgm (Consorzio nazionale della cooperazione sociale). Una vita dedicata al non profit.

I dati danno in aumento le assunzioni nelle imprese sociali, però ci sono i forti tagli sui fondi e del 5 per mille. Che tipo di stagione stiamo vivendo?
Di forte passaggio, al di là dei numeri che continuano ad essere significativi. Il non profit produttivo, che gestisce in maniera continua servizi, è chiamato nei prossimi 2-3 anni a trovare nuove strategie di sostentamento, perché al di là dei tagli di Tremonti – che ognuno può considerare più o meno negativamente – la capacità della spesa pubblica è quella che è, visto il debito pubblico italiano.

Quindi propone di sganciarsi dal canale di finanziamenti pubblici…
Il principio di sussidiarietà o diventa vero quindi è capace di generare autonomia o altrimenti alla fine avremo un settore para-pubblico, non un Terzo settore. Questa non è una gran cosa, perché non permette la creatività, la genialità e la passione: si fa quello che ti dicono di fare altri perché ti danno i soldi. Invece bisogna riconquistare un’autonomia.

Nuove alleanze con chi? Con aziende private?
Vuol dire fare un passo in avanti rispetto al modello della cooperazione sociale, una grandissima innovazione in Italia, che ho contribuito a creare. Però è chiaramente insufficiente. Bisogna immaginare imprese sociali al cui interno ci siano anche imprese profit con quote di minoranza. In questo modo si coinvolge anche la loro responsabilità sociale. E poi rapporti più trasversali tra fasce di popolazione povera e ricca. I problemi della vita oggi toccano tutti. Le imprese sociali hanno il compito di riequilibrare queste risorse, proprio perché sono capaci di ridistribuire anche il valore: un servizio avrà un costo più alto per la famiglia ricca e uno quasi a zero per quella povera. Ma bisogna proprio ripensarlo radicalmente. Allora lo Stato ha il compito di sostenere il passaggio nei prossimi 5-10 anni: generare questi nuovi soggetti di comunità, quindi aiutarli più sul versante del capitale che su quello del conto economico.

Quindi si deve abbandonare l’assistenzialismo…
Assolutamente, perché è pericolosissimo per i poveri. Bisogna restare accanto a loro, fare in modo che non ci siano le ingiustizie al mondo, trovare distribuzioni più eque. Ma quando si interviene caso per caso, bisogna lavorare al massimo sulle capacità delle persone, perché altrimenti è una vita veramente triste.

C’è anche un problema educativo però…
Infatti. Secondo me, andrebbe ripristinato un servizio civile obbligatorio, perché è un dovere morale che ha questa nazione. Non è possibile che non ci sia più nessun rito iniziatico alla società degli adulti, che abbia a che fare con il fatto che do un po’ della mia vita agli altri. Perché se c’è un problema dietro all’impresa sociale, è di tipo educativo. Non di funzioni o di strategie, di fiscalità – pur tutte questioni importanti – ma che non contano nulla se non c’è una grande scelta educativa: gli altri mi riguardano. Non starà più in piedi nessun sistema di Welfare senza un’idea nuova per il bene comune, perché il Welfare è un bene comune.

L’opinione pubblica deve però sapere che se dovessero venire a mancare queste realtà o a ridursi…
Il nostro Stato collassa!

E ne paga le conseguenze il cittadino, soprattutto il più debole…
Assolutamente. Se non saremo capaci di interpretare bene la crisi, ci troveremo con un’esplosione di problemi assolutamente ingestibili da qualsiasi istituzione pubblica.

Bisogna anche ritessere le relazioni sociali in una società chiusa e individualista…
Certo: utilizzare la crisi del Welfare con la possibilità di ridare uno slancio alle relazioni umane. Bisogna avere molto coraggio: io dalla mia Chiesa, dai miei cristiani, me lo aspetterei, perché questo è veramente un tempo di coraggio cristiano. C’è in ballo il prossimo, non tanto come gesto eroico, ma come dato concreto e quotidiano, che l’altro mi riguarda perché la sua sorte è anche la mia.

Quindi occorre rilanciare le radici che animano il tutto…
Esatto, ritornare alle radici che hanno fatto nascere il volontariato e la cooperazione sociale. In fondo erano le radici che hanno fanno il primo ospedale a Milano, il primo orfanotrofio a Bergamo, che vedevano dentro la socialità e la carità un’altissima forma di civiltà. «Le imprese sociali sono chiamate a nuove formule, a trovare diverse modalità di finanziamento, nuove alleanze per generare una cittadinanza capace di autoprodurre servizi». Lo sostiene Johnny Dotti, presidente e amministratore delegato di Welfare Italia Servizi. In passato è stato ad e presidente di Cgm (Consorzio nazionale della cooperazione sociale). Una vita dedicata al non profit.I dati danno in aumento le assunzioni nelle imprese sociali, però ci sono i forti tagli sui fondi e del 5 per mille. Che tipo di stagione stiamo vivendo?Di forte passaggio, al di là dei numeri che continuano ad essere significativi. Il non profit produttivo, che gestisce in maniera continua servizi, è chiamato nei prossimi 2-3 anni a trovare nuove strategie di sostentamento, perché al di là dei tagli di Tremonti – che ognuno può considerare più o meno negativamente – la capacità della spesa pubblica è quella che è, visto il debito pubblico italiano.Quindi propone di sganciarsi dal canale di finanziamenti pubblici…Il principio di sussidiarietà o diventa vero quindi è capace di generare autonomia o altrimenti alla fine avremo un settore para-pubblico, non un Terzo settore. Questa non è una gran cosa, perché non permette la creatività, la genialità e la passione: si fa quello che ti dicono di fare altri perché ti danno i soldi. Invece bisogna riconquistare un’autonomia.Nuove alleanze con chi? Con aziende private?Vuol dire fare un passo in avanti rispetto al modello della cooperazione sociale, una grandissima innovazione in Italia, che ho contribuito a creare. Però è chiaramente insufficiente. Bisogna immaginare imprese sociali al cui interno ci siano anche imprese profit con quote di minoranza. In questo modo si coinvolge anche la loro responsabilità sociale. E poi rapporti più trasversali tra fasce di popolazione povera e ricca. I problemi della vita oggi toccano tutti. Le imprese sociali hanno il compito di riequilibrare queste risorse, proprio perché sono capaci di ridistribuire anche il valore: un servizio avrà un costo più alto per la famiglia ricca e uno quasi a zero per quella povera. Ma bisogna proprio ripensarlo radicalmente. Allora lo Stato ha il compito di sostenere il passaggio nei prossimi 5-10 anni: generare questi nuovi soggetti di comunità, quindi aiutarli più sul versante del capitale che su quello del conto economico.Quindi si deve abbandonare l’assistenzialismo…Assolutamente, perché è pericolosissimo per i poveri. Bisogna restare accanto a loro, fare in modo che non ci siano le ingiustizie al mondo, trovare distribuzioni più eque. Ma quando si interviene caso per caso, bisogna lavorare al massimo sulle capacità delle persone, perché altrimenti è una vita veramente triste.C’è anche un problema educativo però…Infatti. Secondo me, andrebbe ripristinato un servizio civile obbligatorio, perché è un dovere morale che ha questa nazione. Non è possibile che non ci sia più nessun rito iniziatico alla società degli adulti, che abbia a che fare con il fatto che do un po’ della mia vita agli altri. Perché se c’è un problema dietro all’impresa sociale, è di tipo educativo. Non di funzioni o di strategie, di fiscalità – pur tutte questioni importanti – ma che non contano nulla se non c’è una grande scelta educativa: gli altri mi riguardano. Non starà più in piedi nessun sistema di Welfare senza un’idea nuova per il bene comune, perché il Welfare è un bene comune.L’opinione pubblica deve però sapere che se dovessero venire a mancare queste realtà o a ridursi…Il nostro Stato collassa!E ne paga le conseguenze il cittadino, soprattutto il più debole…Assolutamente. Se non saremo capaci di interpretare bene la crisi, ci troveremo con un’esplosione di problemi assolutamente ingestibili da qualsiasi istituzione pubblica.Bisogna anche ritessere le relazioni sociali in una società chiusa e individualista…Certo: utilizzare la crisi del Welfare con la possibilità di ridare uno slancio alle relazioni umane. Bisogna avere molto coraggio: io dalla mia Chiesa, dai miei cristiani, me lo aspetterei, perché questo è veramente un tempo di coraggio cristiano. C’è in ballo il prossimo, non tanto come gesto eroico, ma come dato concreto e quotidiano, che l’altro mi riguarda perché la sua sorte è anche la mia.Quindi occorre rilanciare le radici che animano il tutto…Esatto, ritornare alle radici che hanno fatto nascere il volontariato e la cooperazione sociale. In fondo erano le radici che hanno fanno il primo ospedale a Milano, il primo orfanotrofio a Bergamo, che vedevano dentro la socialità e la carità un’altissima forma di civiltà.

Johnny Dotti