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Esteri

Obama e Dalai Lama, non solo Tibet

Segnali forti per i rapporti Usa-Cina

di Riccardo MORO Redazione

17 Febbraio 2010

Le redazioni dei giornali occidentali, e le cancellerie, si sono chieste in questi giorni quale senso abbia l’incontro di Obama con il Dalai Lama del 18 febbraio alla Casa Bianca. Chi vede con simpatia il leader tibetano si è rallegrato della decisione di Barack Obama, dopo il disagio per il mancato incontro di novembre. Allora il Dalai Lama si recò negli Stati Uniti, ma non venne ricevuto dal presidente americano, che pochi giorni dopo iniziava la sua prima visita ufficiale in Cina. Molti criticarono Obama, accusandolo di sudditanza verso i diktat cinesi. Quei critici oggi si rallegrano della sua decisione, che finalmente accettando l’incontro restituisce al leader tibetano la dignità dovuta.
Le vicende di questi giorni, in realtà, altro non sono che battute di un copione scritto da diverso tempo. Obama, che ha avviato una politica di apertura con tutti, ovviamente non intende escludere il Dalai Lama. Sa che ciò è sgradito alla Cina e preferisce, come gesto di cortesia, cogliere l’occasione di un colloquio personale con i leader cinesi – la visita di novembre a Pechino – per informarli che questo incontro con il leader religioso si farà. La Cina apprezza la comunicazione privilegiata, ma pubblicamente mostra il suo disappunto e nell’imminenza dell’incontro manda in scena il solito ritornello di ammonimenti cui corrispondono le altrettanto scontate repliche Usa, che dichiarano di rispettare l’autorità cinese, ma di non poter far condizionare l’agenda del presidente dalle preferenze altrui. Le redazioni dei giornali occidentali, e le cancellerie, si sono chieste in questi giorni quale senso abbia l’incontro di Obama con il Dalai Lama del 18 febbraio alla Casa Bianca. Chi vede con simpatia il leader tibetano si è rallegrato della decisione di Barack Obama, dopo il disagio per il mancato incontro di novembre. Allora il Dalai Lama si recò negli Stati Uniti, ma non venne ricevuto dal presidente americano, che pochi giorni dopo iniziava la sua prima visita ufficiale in Cina. Molti criticarono Obama, accusandolo di sudditanza verso i diktat cinesi. Quei critici oggi si rallegrano della sua decisione, che finalmente accettando l’incontro restituisce al leader tibetano la dignità dovuta.Le vicende di questi giorni, in realtà, altro non sono che battute di un copione scritto da diverso tempo. Obama, che ha avviato una politica di apertura con tutti, ovviamente non intende escludere il Dalai Lama. Sa che ciò è sgradito alla Cina e preferisce, come gesto di cortesia, cogliere l’occasione di un colloquio personale con i leader cinesi – la visita di novembre a Pechino – per informarli che questo incontro con il leader religioso si farà. La Cina apprezza la comunicazione privilegiata, ma pubblicamente mostra il suo disappunto e nell’imminenza dell’incontro manda in scena il solito ritornello di ammonimenti cui corrispondono le altrettanto scontate repliche Usa, che dichiarano di rispettare l’autorità cinese, ma di non poter far condizionare l’agenda del presidente dalle preferenze altrui. Tre dimensioni Se guardiamo in profondità, però, vediamo che la questione tibetana è solo uno dei diversi nodi delicati che legano e dividono in questo momento Stati Uniti e Cina. Dal lato americano la partita si gioca su tre dimensioni.La prima è più prettamente politica. Alla recente crescita economica cinese non è corrisposto un reale miglioramento delle condizioni della popolazione. La domanda di autonomia e libertà per il territorio tibetano e le popolazioni che lo abitano è porta di entrata per la più generale domanda di democrazia e rispetto dei diritti umani per tutto il Paese.La seconda dimensione è quella economica. La Cina ha goduto in questi anni di tassi di crescita enormi. Ciò è accaduto non per l’aumento dei consumi interni, ma grazie alle esportazioni, soprattutto negli Usa. Gli americani, impoveriti da salari sempre più contenuti, hanno bisogno di prodotti a buon mercato e i cinesi hanno bisogno di clienti. Con i ricavi ottenuti la Cina dispone di liquidità enormi, che investe acquistando i titoli del debito pubblico Usa. Gli Usa, dal canto loro, per finanziare un sistema sociale insufficiente e – grazie alla crisi – sempre più oneroso, preferiscono prendere a prestito i soldi che aumentare le tasse e pesare di conseguenza sui salari. Ma il sistema non può durare. Finché il renmimbi, la moneta cinese il cui tasso di cambio non è fissato dal mercato, ma dal Governo cinese, rimane debole, fa il gioco delle esportazioni cinesi, penalizzando la produzione Usa e mondiale. Ma la conseguente contrazione dei redditi Usa, alla lunga ridurrà anche la domanda di prodotti cinesi. Rivalutare il renmimbi beneficherebbe le imprese Usa e mondiali, ma avvantaggerebbe anche la Cina, aumentando il potere d’acquisto per le importazioni e orientando il sistema industriale al mercato interno, più stabile e oggi largamente sottodimensionato.La terza attenzione è quella geopolitica. La Cina sta assumendo un ruolo sempre più importante nel mondo, dai legami finanziari e di cooperazione interessata nel Sud del mondo, a un protagonismo più marcato nelle istituzioni internazionali. Una Cina attiva e responsabile serve alla comunità internazionale per equilibrare le tensioni e isolare terrorismo e fondamentalismo e Obama intende farla entrare del tutto nel gioco. La posta in gioco Le reazioni cinesi sinora sono state molto controllate. Sul Tibet e sulla democrazia in generale il clima non è cambiato, sul cambio del renminbi nulla di fatto e sulla corresponsabilità globale solo qualche accenno. I dirigenti cinesi sembrano considerarsi molto forti. Probabilmente è per questo che nelle ultime settimane dagli Usa sono partiti segnali più forti rispetto al passato. Si è dato sostegno a Google, che ha minacciato di uscire dalla Cina se continuerà la censura in rete e questo ha infastidito moltissimo il governo locale, molto attento a mostrarsi aperto e rassicurante soprattutto con i giovani, i principali utenti della rete. Quindi è stata data grande eco a un accordo relativamente ordinario di vendita di materiale militare a Taiwan, che tuttora Pechino non riconosce. Infine, l’incontro col Dalai Lama, considerato in Cina un fastidioso oppositore.La reale questione in gioco nell’incontro di domani non è l’autonomia del Tibet, ma il partecipare di Usa e Cina al gioco della diplomazia internazionale da amici o da avversari. L’atteggiamento sulle sanzioni all’Iran ci dirà fra qualche giorno quale delle due alternative Pechino sta scegliendo.