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Esteri

Povertà nel mondo, a piccoli passi

L'Onu verso gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio

di Riccardo MORO Redazione

27 Settembre 2010

Tre giorni al Palazzo di vetro per avviare la sessione annuale dell’assemblea generale delle Nazioni Unite verificando gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Lanciati nel 2000 per dimezzare la povertà nel mondo entro il 2015 gli Obiettivi parevano lontanissimi nel 2005, alla prima verifica: i donatori erano in ritardo e i beneficiari faticavano tra aiuti mancanti e incertezze sulle scelte. La verifica del 2010 non offre valutazioni migliori.
La maggior parte dei Paesi, nonostante gli sforzi, difficilmente raggiungerà gli Obiettivi nel 2015, complice anche la crisi economica. Migliore del temuto la performance degli aiuti: 119 miliardi nel 2009, due in meno rispetto al 2008, con un trend in crescita che raddoppia la cifra di dieci anni fa. Nel 2005, fermi allo 0,33% del Pil versato per aiuti rispetto allo 0,7% promesso tanti anni prima, i Paesi avevano concordato di raggiungere almeno lo 0,51% del Pil entro il 2010 e lo 0,7% nel 2015. La media nel 2009 ha raggiunto lo 0,48% con le punte massime dei Paesi scandinavi (la Svezia supera l’1,12%!) e quella minima dell’Italia con lo 0,16%.
Complessivamente non siamo troppo distanti dal mantenimento della promessa e non è una cattiva notizia. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, inoltre ha annunciato 40 miliardi per la salute materno-infantile, anche se non saranno addizionali, ma solo una speciale destinazione all’interno delle normali contribuzioni.
Illustrate così le cifre sembrano positive: diventano raccapriccianti se si pensa che il G20 promise per la crisi 5.000 miliardi. E noi ci balocchiamo con poco più di 100, da usare per 3 miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno… Il vertice, però, non va archiviato come il teatrino della retorica inutile. Per quanto stucchevole fosse ascoltare alcuni leader spiegare l’importanza degli Obiettivi, mentre essi stessi ne tagliano i contributi, è possibile leggere qualche dinamica interessante tra le righe di questi tre giorni.
La prima è la figura del segretario generale, che dopo le fatiche del predecessore, sembra muoversi nel Palazzo con lucidità. Rendendosi conto che fra cinque anni l’Onu dovrà annunciare che molti Obiettivi non saranno stati raggiunti, vuole concentrare gli sforzi sulla salute materno-infantile per poter presentare almeno un successo. Per quanto la citazione della riduzione delle gravidanze indesiderate come uno degli effetti del piano faccia temere il rilancio di pratiche spregiudicate di controllo delle nascite – ma il documento presentato, va detto, non ne parla – l’intervento di Ban è sembrato autorevole e fa tornare a nuova centralità l’istituzione Nazioni Unite.
Si tratta di un riequilibrio reso possibile da Barack Obama, la seconda nota da cogliere di questi tre giorni, che insiste nell’azione di rilegittimare il multilateralismo dopo il disprezzo praticato durante l’era Bush. Obama non ha fatto promesse di finanziarie, ma ha annunciato una nuova stagione negli aiuti da parte Usa, fondata sullo sviluppo delle capacità di Paesi e comunità locali, privilegiando quelli che vogliano promuovere democrazia politica ed economica. Non sono idee nuove, naturalmente, ma ben diverse da quel trade not aid, commercio non aiuti, ritmato come un mantra dal suo predecessore. Inoltre ha citato l’impegno Usa per la chiusura del “Doha round”, l’annoso negoziato presso il Wto, per definire prezzi e regole del commercio internazionale che garantiscano al Sud del mondo entrate adeguate per combattere la povertà. Un passo che può essere rilevante.
Un’altra nota di interesse è legata alla proposta di Sarkozy e Zapatero per una tassa sulle transazioni internazionali, la cosiddetta Tobin tax, proposta da anni dalle reti della società civile internazionale per proteggere i mercati finanziari dalle speculazioni valutarie e finanziare nel contempo la lotta contro la povertà. Per essere efficace una tassa di questo tipo deve essere applicata da tutti e finché gli Stati Uniti non romperanno il tabu di una tassa per rendere obbligatorio il contributo allo sviluppo difficilmente la proposta diventerà realtà. Ma è importante che sia stata avanzata da Paesi ricchi nel consesso più alto. Il futuro si costruisce a piccoli passi.
Infine i bilanci delle realizzazioni, con le voci dei leader del Sud del mondo. I Paesi con maggiori vulnerabilità hanno parlato francamente della loro condizione, senza nascondere le difficoltà. Tutti hanno orgogliosamente mostrato i passi compiuti. Ascoltarli dava l’impressione di trovarsi al centro di un immenso e laborioso cantiere al servizio della promozione umana. Per quanti limiti possano avere gli sforzi e le politiche in atto, per quanto retorici possano essere i racconti dei governi, forse è questa la vera immagine del mondo. Non quella che vediamo in tv, in cui veleni, lustrini e lacrime si alternano per suscitare un altro “bell’applauso”. Tre giorni al Palazzo di vetro per avviare la sessione annuale dell’assemblea generale delle Nazioni Unite verificando gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Lanciati nel 2000 per dimezzare la povertà nel mondo entro il 2015 gli Obiettivi parevano lontanissimi nel 2005, alla prima verifica: i donatori erano in ritardo e i beneficiari faticavano tra aiuti mancanti e incertezze sulle scelte. La verifica del 2010 non offre valutazioni migliori.La maggior parte dei Paesi, nonostante gli sforzi, difficilmente raggiungerà gli Obiettivi nel 2015, complice anche la crisi economica. Migliore del temuto la performance degli aiuti: 119 miliardi nel 2009, due in meno rispetto al 2008, con un trend in crescita che raddoppia la cifra di dieci anni fa. Nel 2005, fermi allo 0,33% del Pil versato per aiuti rispetto allo 0,7% promesso tanti anni prima, i Paesi avevano concordato di raggiungere almeno lo 0,51% del Pil entro il 2010 e lo 0,7% nel 2015. La media nel 2009 ha raggiunto lo 0,48% con le punte massime dei Paesi scandinavi (la Svezia supera l’1,12%!) e quella minima dell’Italia con lo 0,16%.Complessivamente non siamo troppo distanti dal mantenimento della promessa e non è una cattiva notizia. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, inoltre ha annunciato 40 miliardi per la salute materno-infantile, anche se non saranno addizionali, ma solo una speciale destinazione all’interno delle normali contribuzioni.Illustrate così le cifre sembrano positive: diventano raccapriccianti se si pensa che il G20 promise per la crisi 5.000 miliardi. E noi ci balocchiamo con poco più di 100, da usare per 3 miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno… Il vertice, però, non va archiviato come il teatrino della retorica inutile. Per quanto stucchevole fosse ascoltare alcuni leader spiegare l’importanza degli Obiettivi, mentre essi stessi ne tagliano i contributi, è possibile leggere qualche dinamica interessante tra le righe di questi tre giorni.La prima è la figura del segretario generale, che dopo le fatiche del predecessore, sembra muoversi nel Palazzo con lucidità. Rendendosi conto che fra cinque anni l’Onu dovrà annunciare che molti Obiettivi non saranno stati raggiunti, vuole concentrare gli sforzi sulla salute materno-infantile per poter presentare almeno un successo. Per quanto la citazione della riduzione delle gravidanze indesiderate come uno degli effetti del piano faccia temere il rilancio di pratiche spregiudicate di controllo delle nascite – ma il documento presentato, va detto, non ne parla – l’intervento di Ban è sembrato autorevole e fa tornare a nuova centralità l’istituzione Nazioni Unite.Si tratta di un riequilibrio reso possibile da Barack Obama, la seconda nota da cogliere di questi tre giorni, che insiste nell’azione di rilegittimare il multilateralismo dopo il disprezzo praticato durante l’era Bush. Obama non ha fatto promesse di finanziarie, ma ha annunciato una nuova stagione negli aiuti da parte Usa, fondata sullo sviluppo delle capacità di Paesi e comunità locali, privilegiando quelli che vogliano promuovere democrazia politica ed economica. Non sono idee nuove, naturalmente, ma ben diverse da quel trade not aid, commercio non aiuti, ritmato come un mantra dal suo predecessore. Inoltre ha citato l’impegno Usa per la chiusura del “Doha round”, l’annoso negoziato presso il Wto, per definire prezzi e regole del commercio internazionale che garantiscano al Sud del mondo entrate adeguate per combattere la povertà. Un passo che può essere rilevante.Un’altra nota di interesse è legata alla proposta di Sarkozy e Zapatero per una tassa sulle transazioni internazionali, la cosiddetta Tobin tax, proposta da anni dalle reti della società civile internazionale per proteggere i mercati finanziari dalle speculazioni valutarie e finanziare nel contempo la lotta contro la povertà. Per essere efficace una tassa di questo tipo deve essere applicata da tutti e finché gli Stati Uniti non romperanno il tabu di una tassa per rendere obbligatorio il contributo allo sviluppo difficilmente la proposta diventerà realtà. Ma è importante che sia stata avanzata da Paesi ricchi nel consesso più alto. Il futuro si costruisce a piccoli passi.Infine i bilanci delle realizzazioni, con le voci dei leader del Sud del mondo. I Paesi con maggiori vulnerabilità hanno parlato francamente della loro condizione, senza nascondere le difficoltà. Tutti hanno orgogliosamente mostrato i passi compiuti. Ascoltarli dava l’impressione di trovarsi al centro di un immenso e laborioso cantiere al servizio della promozione umana. Per quanti limiti possano avere gli sforzi e le politiche in atto, per quanto retorici possano essere i racconti dei governi, forse è questa la vera immagine del mondo. Non quella che vediamo in tv, in cui veleni, lustrini e lacrime si alternano per suscitare un altro “bell’applauso”.