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San Vittore

«Un solo colloquio può cambiare la vita»

Parla don Alberto Barin, cappellano della Casa circondariale di piazza Filangieri, ricordando l'importanza di curare le relazioni con i detenuti

di Luisa BOVE Redazione

12 Gennaio 2010

San Vittore è l’Istituto di pena più visitato dall’Arcivescovo, non solo perché il più vicino, ma perché quello che più soffre per limiti strutturali, insufficienza di personale e altro ancora. Ma la Casa circondariale di piazza Filangieri (1.500 detenuti di cui un centianio di donne) non è solo questo. C’è un lavoro che coinvolge lo stesso cappellano e che si chiama recupero della dignità della persona. «Cerco di creare una relazione significativa con le persone, una relazione che possa essere il più possibile positiva e propositiva. È nella relazione che si stabilisce quella dinamica di ascolto, parola, rapporto e crescita da entrambe le parti: io verso di loro e loro verso di me».

Qual è il suo compito?
Dopo la celebrazione della messa, che è l’unico momento comunitario, noi cappellani di San Vittore spendiamo il resto della giornata a fare colloqui personali, che ci chiedono loro o che partono da esigenze immediate, problemi e difficoltà da risolvere, ma che possono anche diventare amicizie, cammini spirituali, rivisitazioni della propria vita, apertura della propria coscienza.

San Vittore si caratterizza per il grande turn over di detenuti, quindi può capitare che dopo il primo colloquio non ne seguano altri…
Per noi significa giocare tutto nell’immediato, il tutto nel frammento: se c’è un annuncio, un consiglio, una parola… dirla tutta, donarla tutta! Se poi seguiranno altri colloqui meglio, ma a volte si resta colpiti anche solo da un incontro. C’è chi mi scrive: «Ti ricordi? Ci siamo visti solo una volta, ma per me è stata decisiva». A volte basta uno sguardo, una stretta di mano, un abbraccio… Noi qui curiamo la qualità della relazione, più che la quantità.

Gli stranieri a San Vittore sono più del 70%, questo rende più difficile la convivenza?
Questa può essere un’opportunità fattiva di educazione alla diversità. “Fuori” non si fa perché non c’è la volontà, qui invece si è costretti a stare con il diverso. Ma il diverso che non è solo quello che mi ruba lo spazio o il tempo, ma è portatore anche di una positività, di una religione, di una lingua, di una cultura… È un paradosso, ma positivo. Qui ci si educa alla multiculturalità, ci sono celle in cui vivono insieme l’italiano, il latinoamericano, il rumeno… La convivenza sociale può essere difficile e faticosa, ma non è impossibile.

All’Arcivescovo Tettamanzi sta a cuore il tema della giustizia, ma anche a voi…
A Natale è uscito un bel messaggio da San Vittore: “Abbiamo sete di una giustizia autentica”. Il presepe infatti indicava questo messaggio ed è stato ben raccolto e sviluppato. Si tratta di capire qual è la giustizia autentica, quella giustizia che promuove il bene sia per la vittima, sia per il malfattore. La giustizia autentica è quella che vuole il bene di tutti. Per questo al centro del nostro presepe c’era la statua del Buon Pastore che è andato a cercare chi era ferito e si era perso per caricarselo sulle spalle. Oltre alla nascita del Giusto, nel nostro presepe volevamo rappresentare anche la misericordia di Dio attraverso il Buon Pastore. Poi c’era una fontana dalla quale sgorgava acqua e che indicava la vitalità. San Vittore è l’Istituto di pena più visitato dall’Arcivescovo, non solo perché il più vicino, ma perché quello che più soffre per limiti strutturali, insufficienza di personale e altro ancora. Ma la Casa circondariale di piazza Filangieri (1.500 detenuti di cui un centianio di donne) non è solo questo. C’è un lavoro che coinvolge lo stesso cappellano e che si chiama recupero della dignità della persona. «Cerco di creare una relazione significativa con le persone, una relazione che possa essere il più possibile positiva e propositiva. È nella relazione che si stabilisce quella dinamica di ascolto, parola, rapporto e crescita da entrambe le parti: io verso di loro e loro verso di me».Qual è il suo compito?Dopo la celebrazione della messa, che è l’unico momento comunitario, noi cappellani di San Vittore spendiamo il resto della giornata a fare colloqui personali, che ci chiedono loro o che partono da esigenze immediate, problemi e difficoltà da risolvere, ma che possono anche diventare amicizie, cammini spirituali, rivisitazioni della propria vita, apertura della propria coscienza.San Vittore si caratterizza per il grande turn over di detenuti, quindi può capitare che dopo il primo colloquio non ne seguano altri…Per noi significa giocare tutto nell’immediato, il tutto nel frammento: se c’è un annuncio, un consiglio, una parola… dirla tutta, donarla tutta! Se poi seguiranno altri colloqui meglio, ma a volte si resta colpiti anche solo da un incontro. C’è chi mi scrive: «Ti ricordi? Ci siamo visti solo una volta, ma per me è stata decisiva». A volte basta uno sguardo, una stretta di mano, un abbraccio… Noi qui curiamo la qualità della relazione, più che la quantità.Gli stranieri a San Vittore sono più del 70%, questo rende più difficile la convivenza?Questa può essere un’opportunità fattiva di educazione alla diversità. “Fuori” non si fa perché non c’è la volontà, qui invece si è costretti a stare con il diverso. Ma il diverso che non è solo quello che mi ruba lo spazio o il tempo, ma è portatore anche di una positività, di una religione, di una lingua, di una cultura… È un paradosso, ma positivo. Qui ci si educa alla multiculturalità, ci sono celle in cui vivono insieme l’italiano, il latinoamericano, il rumeno… La convivenza sociale può essere difficile e faticosa, ma non è impossibile.All’Arcivescovo Tettamanzi sta a cuore il tema della giustizia, ma anche a voi…A Natale è uscito un bel messaggio da San Vittore: “Abbiamo sete di una giustizia autentica”. Il presepe infatti indicava questo messaggio ed è stato ben raccolto e sviluppato. Si tratta di capire qual è la giustizia autentica, quella giustizia che promuove il bene sia per la vittima, sia per il malfattore. La giustizia autentica è quella che vuole il bene di tutti. Per questo al centro del nostro presepe c’era la statua del Buon Pastore che è andato a cercare chi era ferito e si era perso per caricarselo sulle spalle. Oltre alla nascita del Giusto, nel nostro presepe volevamo rappresentare anche la misericordia di Dio attraverso il Buon Pastore. Poi c’era una fontana dalla quale sgorgava acqua e che indicava la vitalità.

Don Alberto Barin, cappellano presso la Casa Circondariale di San Vittore