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Carcere e minori

Volontari e reclusi, una sera al Beccaria

«La maggior parte di loro proviene da quartieri come Quarto Oggiaro, Giambellino e Barona»

di Marta ZANELLA Redazione

19 Marzo 2010

Alle 7 di una sera come le altre, un gruppetto di volontari varca l’entrata secondaria dell’istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano. La porta del Centro di prima accoglienza (Cpa) si apre lungo un corridoio: a destra l’area femminile, gli uffici degli agenti di polizia, degli psicologi, della direttrice; a sinistra l’area maschile, con il locale del pranzo, la sala giochi e le camere. I volontari lasciano borse e cellulari, si registrano e raggiungono la sala, dove tre ragazzi stanno già aspettando la cena. Mangeranno con loro, poi decideranno insieme come trascorrere la serata. Non sanno come si svolgerà, ogni incontro è una storia a sé. I Cpa, introdotti da una legge di 20 anni fa, ospitano i minori dai 14 ai 17 anni fermati o arrestati in attesa dell’udienza di convalida del giudice, che deve avvenire entro 96 ore. È una sorta di primo anello della catena della giustizia minorile e, anche se per legge dovrebbe essere collocato vicino agli uffici giudiziari minorili e al di fuori degli istituti penali, nel caso del Beccaria fa parte dello stesso complesso. Invece i volontari che, a turno, passano la serata al Cpa con i ragazzi appena arrestati sono i giovani della Sesta Opera San Fedele, associazione che da 80 anni si occupa di carcere. Condividono pasto e dopocena, giocando al biliardino, guardando un film, semplicemente chiacchierando. Al Beccaria continuano ad aumentare gli italiani: erano il 16,8% nel 2007, sono diventati il 27,2% nel 2008, nei primi mesi del 2009 hanno raggiunto il 32,4%: «La maggior parte di loro – spiega Cinzia Giovari, volontaria della Sesta Opera – viene da quartieri periferici e storicamente difficili come Quarto Oggiaro, Giambellino, la Barona. Oppure da comuni dell’hinterland, terra di immigrazione negli anni Sessanta. Territori difficili 40 anni fa, evidentemente zone a rischio ancora oggi».
Rapinatore per gioco. È italiano anche Lorenzo, che se ne sta in disparte a fissare la tv senza vederla, arrestato per rapina a mano armata con alcuni compagni maggiorenni, ora a San Vittore. «La mia vita è un fallimento», continua a ripetere guardando nel vuoto. Era alla sua prima rapina, aveva accettato di partecipare perché ormai alla disperazione. A 17 anni si ritrova a sopravvivere di espedienti, anche per mantenere la madre, depressa e disoccupata da anni. La sorella maggiore a 20 anni è rimasta incinta e se n’è andata di casa. Il padre era stato arrestato per associazione mafiosa e ha passato 15 anni in carcere in Calabria. Era stato allora che la mamma aveva deciso di emigrare, arrivando a Quarto Oggiaro, ma non è mai riuscita a integrarsi in città. Poi il padre è morto, e Lorenzo ora rimpiange di non averlo mai conosciuto veramente, di non essere stato in grado di costruire una relazione con la madre, di non aver finito la scuola e non essere riuscito a trovarsi un lavoro. Insomma, di aver fallito in tutto. «Chi nasce o cresce in quartieri come Giambellino o Quarto Oggiaro spesso non conosce alternative, non considera scuola e lavoro possibilità concrete – continua Francesca Barchetta, coordinatrice dei volontari Sesta Opera al Cpa -. Hanno amici, fratelli maggiori, il padre che sono già stati in carcere, l’esperienza giudiziaria è considerata normale, un prezzo da pagare per avere in fretta soldi facili. È un modo di pensare che si registra spesso nei ragazzi che arrivano da queste periferie…». E poi c’è chi prende il crimine come un gioco: «Un pomeriggio abbiamo deciso di fare una rapina in banca, così, non saprei dire perché – interviene Andrea -. Abbiamo preso delle pistole giocattolo e siamo andati. Poi ci siamo accorti che la banca era chiusa, allora abbiamo optato per il supermercato». Non hanno pensato che ci fossero le telecamere di sorveglianza, che potessero prenderli. Avevano deciso e l’hanno fatto, così, senza rifletterci sopra troppo. Sembrava un’idea divertente. Tre giorni per pensare. Ma commettere un reato, finire dentro, nella logica della cultura deviante, può anche essere un modo per sentirsi grandi, adulti. Alle 7 di una sera come le altre, un gruppetto di volontari varca l’entrata secondaria dell’istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano. La porta del Centro di prima accoglienza (Cpa) si apre lungo un corridoio: a destra l’area femminile, gli uffici degli agenti di polizia, degli psicologi, della direttrice; a sinistra l’area maschile, con il locale del pranzo, la sala giochi e le camere. I volontari lasciano borse e cellulari, si registrano e raggiungono la sala, dove tre ragazzi stanno già aspettando la cena. Mangeranno con loro, poi decideranno insieme come trascorrere la serata. Non sanno come si svolgerà, ogni incontro è una storia a sé. I Cpa, introdotti da una legge di 20 anni fa, ospitano i minori dai 14 ai 17 anni fermati o arrestati in attesa dell’udienza di convalida del giudice, che deve avvenire entro 96 ore. È una sorta di primo anello della catena della giustizia minorile e, anche se per legge dovrebbe essere collocato vicino agli uffici giudiziari minorili e al di fuori degli istituti penali, nel caso del Beccaria fa parte dello stesso complesso. Invece i volontari che, a turno, passano la serata al Cpa con i ragazzi appena arrestati sono i giovani della Sesta Opera San Fedele, associazione che da 80 anni si occupa di carcere. Condividono pasto e dopocena, giocando al biliardino, guardando un film, semplicemente chiacchierando. Al Beccaria continuano ad aumentare gli italiani: erano il 16,8% nel 2007, sono diventati il 27,2% nel 2008, nei primi mesi del 2009 hanno raggiunto il 32,4%: «La maggior parte di loro – spiega Cinzia Giovari, volontaria della Sesta Opera – viene da quartieri periferici e storicamente difficili come Quarto Oggiaro, Giambellino, la Barona. Oppure da comuni dell’hinterland, terra di immigrazione negli anni Sessanta. Territori difficili 40 anni fa, evidentemente zone a rischio ancora oggi».Rapinatore per gioco. È italiano anche Lorenzo, che se ne sta in disparte a fissare la tv senza vederla, arrestato per rapina a mano armata con alcuni compagni maggiorenni, ora a San Vittore. «La mia vita è un fallimento», continua a ripetere guardando nel vuoto. Era alla sua prima rapina, aveva accettato di partecipare perché ormai alla disperazione. A 17 anni si ritrova a sopravvivere di espedienti, anche per mantenere la madre, depressa e disoccupata da anni. La sorella maggiore a 20 anni è rimasta incinta e se n’è andata di casa. Il padre era stato arrestato per associazione mafiosa e ha passato 15 anni in carcere in Calabria. Era stato allora che la mamma aveva deciso di emigrare, arrivando a Quarto Oggiaro, ma non è mai riuscita a integrarsi in città. Poi il padre è morto, e Lorenzo ora rimpiange di non averlo mai conosciuto veramente, di non essere stato in grado di costruire una relazione con la madre, di non aver finito la scuola e non essere riuscito a trovarsi un lavoro. Insomma, di aver fallito in tutto. «Chi nasce o cresce in quartieri come Giambellino o Quarto Oggiaro spesso non conosce alternative, non considera scuola e lavoro possibilità concrete – continua Francesca Barchetta, coordinatrice dei volontari Sesta Opera al Cpa -. Hanno amici, fratelli maggiori, il padre che sono già stati in carcere, l’esperienza giudiziaria è considerata normale, un prezzo da pagare per avere in fretta soldi facili. È un modo di pensare che si registra spesso nei ragazzi che arrivano da queste periferie…». E poi c’è chi prende il crimine come un gioco: «Un pomeriggio abbiamo deciso di fare una rapina in banca, così, non saprei dire perché – interviene Andrea -. Abbiamo preso delle pistole giocattolo e siamo andati. Poi ci siamo accorti che la banca era chiusa, allora abbiamo optato per il supermercato». Non hanno pensato che ci fossero le telecamere di sorveglianza, che potessero prenderli. Avevano deciso e l’hanno fatto, così, senza rifletterci sopra troppo. Sembrava un’idea divertente. Tre giorni per pensare. Ma commettere un reato, finire dentro, nella logica della cultura deviante, può anche essere un modo per sentirsi grandi, adulti.