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Anniversario

Dieci anni fa lo tsunami nel Sud-Est asiatico

Il 26 dicembre 2004 il cataclisma che provocò 230 mila vittime e un milione e mezzo di sfollati in 14 Paesi. Ma l’azione umanitaria che ne seguì è stata il caso di maggiore successo degli ultimi anni

di Claudio URBANO

23 Dicembre 2014

Il giorno di Santo Stefano sarà una data importante per le popolazioni di molti Paesi dell’Asia e non solo. Il 26 dicembre saranno infatti passati dieci anni esatti dal terribile tsunami che travolse le coste del Sud-Est asiatico, col suo carico istantaneo di morte e distruzione. Furono circa 5 milioni le persone colpite in 14 Paesi, con un milione e mezzo rimasti senza casa e circa 230mila vittime. Le cerimonie di commemorazione che si terranno nelle località colpite – la più importante a Banda Aceh, città dell’Indonesia divenuta simbolo della tragedia, dove si riuniranno le rappresentanze di 53 Paesi – non saranno però solo occasione di preghiera e di riflessione. Secondo gli studi delle principali istituzioni e organizzazioni internazionali l’azione umanitaria seguita al maremoto è stata il caso di maggiore successo degli ultimi anni, consentendo una sostanziale ripresa della vita civile ed economica delle zone colpite, che grazie agli interventi di ricostruzione hanno visto anche un miglioramento delle proprie condizioni.

Lo sottolinea il rapporto di Caritas Italiana, che è riuscita a raccogliere 36 milioni di euro, impiegandoli anche in progetti a lungo termine. Un caso concreto è quello dell’isola di Nias, in Indonesia, che nel marzo del 2005 venne colpita anche da un terremoto che distrusse l’80% delle case. «Avevamo pronto il materiale per cominciare a ricostruire le case perse per lo tsunami, ma il terremoto ci ha fatto cambiare i nostri piani -, racconta padre Mikael, direttore della Caritas nella locale diocesi di Sibolga -: tutto è stato più difficile, ma grazie alla forza di quelle comunità e alla caparbietà dei nostri operatori ce l’abbiamo fatta».

Dopo tre anni di ricostruzione, la Caritas si è concentrata sulle attività di sviluppo in tutta l’isola, con corsi rivolti ai contadini per migliorare la produzione dell’albero della gomma, corsi di meccanica, informatica, parrucchiere, inglese per i giovani che hanno lasciato la scuola e attività di prestiti di microfinanza per aiutare coltivatori e piccoli commercianti a uscire dalla spirale degli strozzini e avere guadagni più dignitosi. «Grazie ai fondi ricevuti per lo tsunami ci siamo concentrati nel dare strumenti di crescita ai tanti giovani che prima non avevano molta speranza in quest’isola, povera e sempre dimenticata dal governo indonesiano – continua padre Mikael -. Nias è migliorata in questi anni, ma il nostro lavoro non si ferma adesso. Continuiamo perché non vogliamo disperdere tutte le cose buone venute dopo la doppia disgrazia di 10 anni fa».

L’intervento economicamente più rilevante di Caritas Italiana (quasi 10 milioni di euro) è stato però in Sri Lanka, Paese colpito oltre che per il numero di morti (circa 35 mila) anche per la distruzione dell’economia della pesca. Qui Caritas Ambrosiana, che in un anno solo dalle donazioni aveva raccolto 300 mila euro, ha ricostruito 63 abitazioni e sostenuto progetti di microcredito per 90 famiglie.

È stato insomma un caso di successo, quello della ricostruzione dopo lo tsunami, grazie anche all’enorme impatto mediatico della vicenda e quindi alla pronta reazione delle popolazioni dei Paesi donatori. Secondo un rapporto della rete di Ong Oxfam, a un anno dal maremoto ben il 40% dei circa 13 miliardi di dollari raccolti veniva da donazioni private, che in genere coprono invece solo un quarto delle richieste per le emergenze globali lanciate dall’Onu. La risposta dei Paesi “ricchi”, però, è purtroppo quasi sempre inadeguata alle emergenze, dalle grandi catastrofi naturali alle guerre. Per fare un esempio, a un mese dallo tsunami i fondi raccolti avevano coperto una percentuale dei bisogni doppia rispetto alle donazioni seguite al tifone Hayan che ha colpito le Filippine nel 2013, mentre, osserva sempre Oxfam, negli ultimi dieci anni i finanziamenti internazionali hanno coperto solo il 65% dei bisogni individuati dalle Nazioni Unite per le grandi emergenze.

Un fatto di sensibilità dell’opinione pubblica che varia anche in base alla tipologia d’emergenza, con le catastrofi naturali più violente, come lo tsunami o il terremoto di Haiti, che sollecitano una reazione emotiva immediata, mentre è molto più “lenta” la reazione a eventi meno traumatici dal punto di vista temporale, come inondazioni e carestie, o in emergenze in cui è più difficile immedesimarsi come le guerre.

La capacità di affrontare le emergenze dipende naturalmente anche dal livello di sviluppo e di preparazione dei Paesi colpiti, per cui è necessario impegnarsi in processi spesso lenti e faticosi. A dieci anni dallo tsunami, conclude il rapporto Caritas, la responsabilità è quella di andare oltre le singole tragedie: con una maggiore consapevolezza delle cause dei problemi e delle loro connessioni, e costruendo attenzioni e relazioni che durano nel tempo.