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Africa

È fragile la pace in Sud Sudan

Appello dei Superiori degli istituti religiosi cattolici che chiedono ai leader politici di rispettare l’accordo di pace siglato il 9 maggio ad Addis Abeba

di Davide MAGGIORE

19 Maggio 2014

«Diciamo ‘no’ ad ogni tipo di violenza o a qualsiasi azione che degradi la vita umana e la sua dignità. Troppo sangue è stato sparso su questa terra e troppe vite sono state perdute». È questo uno dei passaggi più importanti dell’appello diffuso il 15 maggio dall’Associazione dei Superiori religiosi del Sud Sudan (Rsass, che raccoglie 29 congregazioni cattoliche), a cinque mesi dall’inizio del conflitto che oppone il presidente in carica Salva Kiir e il suo ex-vice, Riek Machar, oggi a capo della ribellione. Ai due leader rivali, i religiosi sud-sudanesi chiedono di «cercare una pace sostenibile e la riconciliazione attraverso il dialogo politico» e di «onorare l’accordo firmato» la sera del 9 maggio, che prevede un percorso di uscita dalla crisi politica e militare, oltre alla formazione di un governo di unità nazionale.

Già all’indomani dell’accordo firmato nella capitale etiope Addis Abeba, tuttavia, le parti in conflitto si sono accusate a vicenda di averlo violato: il generale Lul Ruai Koang, portavoce degli antigovernativi, ha denunciato azioni delle forze regolari negli stati di Upper Nile e Unity, sostenendo che Salva Kiir non è in grado di controllare le sue forze, e che i ribelli «si riservano il diritto di autodifesa». Opposta la versione delle autorità di Juba: sarebbero stati i ribelli a lanciare attacchi contro diversi villaggi dopo che ai reparti dell’esercito era stato ordinato di sospendere le ostilità. Ancora una settimana dopo il patto concluso con Machar, Kiir ha ribadito in un discorso ufficiale che c’è bisogno di «superare la crisi e assumersi le proprie responsabilità». Il capo di stato in carica ha poi proseguito dicendo di «non essere pronto a riportare il Sud Sudan in guerra, qualsiasi cosa accada». Pur continuando ad accusare il suo ex-vice di spingere alla violenza la propria comunità di origine, i Nuer, il presidente ha però riconosciuto che chi, tra le forze governative, ha compiuto abusi va punito per i suoi crimini. «Chi ha affermato di aver ucciso civili in sostegno a me – ha poi aggiunto – è un bugiardo e non è un mio sostenitore». Il punto che rischia di far saltare la fragile pace, tuttavia, è proprio la presenza di diversi gruppi all’interno delle due fazioni, non tutti direttamente controllabili dai leader politici di riferimento. Di questo rischio i superiori religiosi sono consapevoli, e nel loro messaggio chiedono che «sia le forze governative che quelle ribelli vengano disciplinate e tenute sotto pieno controllo».

L’appello della Rsass contiene anche un appello ad «osservare pienamente le convenzioni internazionali riguardo la guerra e i diritti umani»: un riferimento alle numerose violazioni gravi denunciate in questi cinque mesi di conflitto, tra cui, secondo la delegazione del Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) a Juba, anche attacchi deliberati contro civili e strutture sanitarie. Notizie che hanno «molto preoccupato» il capo delle operazioni dell’Icrc in Africa orientale, Eric Marklay. «I comandanti – ha chiesto – devono garantire la disciplina e far sì che il personale sanitario sia rispettato». Critiche restano anche le condizioni degli sfollati interni che a centinaia di migliaia vivono in campi improvvisati o si sono rifugiati nelle basi della missione Onu nel Paese (Unmiss). «I loro mezzi ordinari per guadagnarsi da vivere sono stati completamente distrutti: molti hanno perso il bestiame e altri non possono riprendere le attività di agricoltura e pesca, mancano di ripari, e non hanno modo di ottenere acqua pulita», ha spiegato Marklay.  Di conseguenza, la Croce Rossa ha aumentato lo stanziamento di fondi per rispondere alla crisi: saranno così 420mila le persone che riceveranno cibo e arnesi da pesca, mentre a 540mila verranno forniti semi e attrezzi agricoli e ad altre 340mila verrà garantito l’accesso all’acqua potabile. In più, l’organizzazione internazionale ha reso operative in Sud Sudan – oltre ad un ospedale – anche quattro unità chirurgiche mobili. Lo sforzo, però, rischia di rivelarsi insufficiente se dovesse espandersi il focolaio di colera che ha colpito la capitale Juba: la prima denuncia delle Nazioni Unite in merito è del 6 maggio, e finora il governo ha confermato 18 casi sospetti di contagio, di cui uno mortale.