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Indagine

Giovani e disoccupazione,
andare oltre i luoghi comuni

Il curatore Francesco Marcaletti illustra i risultati della ricerca promossa dai Giovani dell’Ac ambrosiana insieme con il Dipartimento di Sociologia della Università Cattolica

di Martino INCARBONE

15 Aprile 2012

È vero che un giovane su tre è disoccupato? È vero che i giovani italiani sono tutti “bamboccioni”? Ma soprattutto, quali storie e quali percorsi si nascondono nel passaggio dallo studio al lavoro dei giovani? Queste sono alcune domande a cui ha cercato di rispondere la ricerca promossa dal settore giovani dell’Azione cattolica ambrosiana insieme con il dipartimento di sociologia della Università Cattolica di Milano. I dati sono stati presentati venerdì, presso l’Università Statale di Milano, da Francesco Marcaletti, docente di sociologia della Cattolica, e discussi da Roberto Benaglia, segretario regionale della Cisl Lombardia, Emiliano Novelli, vicepresidente del gruppo giovani imprenditori di Assolombarda, e da Cristina Tajani, assessore alle politiche del lavoro del Comune di Milano. Ne parliamo con il sociologo Marcaletti.

I giornali spesso titolano che un giovane su tre è disoccupato. In che senso questi dati non sono veritieri?
Il discorso sulla disoccupazione giovanile è abbastanza inflazionato, più se ne parla più diventa uno stereotipo. Anche senza guardare i dati della nostra ricerca è già la lettura stessa del dato Istat a smentire questa semplificazione: nella Provincia di Milano il tasso di disoccupazione maschile mostra che sono 2 anni consecutivi in cui il dato continua a calare (23,4% nel 2009, 16,5% nel 2011). Il tasso di disoccupazione però va però letto alla luce del tasso di attività, ossia del numero di giovani che sono nel mercato del lavoro. Il tasso di attività nel 2011 era il 29% (quindi 29 giovani su 100 sono nel mercato del lavoro). Questo significa che è il 19% del 29% ad essere disoccupato: quindi non un giovane su 3 è senza lavoro, ma 5 – 7 giovani su 100 che cercano lavoro, gli altri fanno altre cose, non per forza sono disoccupati, ci sono anche gli studenti universitari.

Dunque quale è stato l’obiettivo della ricerca e che cosa emerge a questo proposito?
L’obiettivo della ricerca è stato approfondire esattamente questo problema: cosa fanno i giovani quando sono ancora studenti e cominciano però ad affacciarsi al lavoro? Sicuramente misurare la disoccupazione solo sul tasso di attività è riduttivo se si parla di fascia giovanile: ciò che abbiamo fatto è tenere conto delle due variabili fondamentali, lo studio e il lavoro, ed analizzarne l’interrelazione. Tra i giovani intervistati sotto i 25 anni il 53% studia soltanto, il 27% studia e lavora, il 18% lavora soltanto e il 2% non studia né lavora; sopra i 25 invece, dove il percorso di studi è concluso o si avvia a conclusione, la situazione muta con il 6% che studia soltanto, il 19% che studia e lavora, il 70% che lavora soltanto e il 4% che né studia, né lavora.

Un quadro sicuramente più complesso. Ci sono anche differenze di genere?
Le differenze di genere sono molto significative. Tra i 25 e i 30 anni le donne che non lavorano né studiano sono più degli uomini. E ancora tra gli uomini che lavorano il 52,7% ha un contratto a tempo indeterminato, per le donne questo dato è molto inferiore, inoltre per le donne sono più numerosi i contratti in Cocopro (17,8%) e il lavoro informale (17%). Questo dato è curioso in quanto si tratta di un campione di persone appena uscite dal sistema scolastico che si affacciano per la prima volta al mondo del lavoro: le differenze di scelte di lavoro forse ce le si aspetta maggiormente nella fascia dai 30 ai 40 dove le donne più frequentemente diventano mamme. Questa differenza penalizza sin da subito le donne dal punto di vista del reddito.

Il titolo del convegno era “Li chiamavano bamboccioni…”, vedendo i dati questo termine si può utilizzare ancora?
Su questo tema la domanda resta aperta: dalla ricerca emerge comunque che l’80% degli intervistati vive ancora in famiglia, con una bassa partecipazione alle attività domestiche e con un grande grado di libertà. In più, alla domanda “che cosa saresti disposto a fare pur di lavorare”, le risposte sono molto esigenti: gli intervistati sono molto selettivi rispetto alla scelta del lavoro: solo per le donne il part time supera il voto 7 su 10 ed è bassa la predisposizione a lavorare di sera, notte o nel fine settimana. Quindi si guarda al lavoro in questa classe d’età con apprensione (alimentata anche dalla stampa) ma i giovani rimangono selettivi, cercano lavoro a determinate condizioni. Un altro esempio è la discrepanza dai dati dichiarati sulla disponibilità ad essere pendolari per lavoro e la realtà dei fatti, infatti chi lavora lo fa a 15-30 minuti da casa.