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Intervista

«L’attacco di Parigi non è Islam»

La voce di condanna del presidente della Casa della Cultura islamica di Milano Bounegab Benaissa

di Francesca MIGLIO @fondazioneoasis

18 Gennaio 2015

Unendosi alla voce di numerose comunità musulmane presenti in Italia il presidente della Casa della Cultura islamica di Milano Bounegab Benaissa, algerino in Italia da quarant’anni, condanna l’attentato terroristico di Parigi: «Quello non è Islam».

Come ha reagito lei, musulmano, alla satira di Charlie Hebdo contro l’Islam? Difendere il settimanale significa difendere la libertà di espressione?
Quella di Charlie Hebdo è una terribile vicenda che mette a rischio la convivenza. La sua satira non mi sconvolge, mi piacciono le caricature, le barzellette e ho un buon senso dell’umorismo. Un lavoro di quel tipo è una forma di libertà di espressione e pertanto va difesa. Tuttavia qualsiasi lavoro non deve uscire dai binari dell’etica, altrimenti si creano situazioni come quella che stiamo vivendo ora. Non parlo solo di etica religiosa, ma di un’etica umana e questo vale per tutti, non solo per Charlie Hebdo.

Dove trova lei, nella sua esperienza di musulmano, i fondamenti di un’azione non violenta?
Parto da un solo presupposto, il Corano: «Chiunque uccida un uomo, che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità» (Cor 5, 32). La radice di Islam è salām, pace. Questo è l’insegnamento universale del Profeta: crediamo nel Dio unico che ha mandato il Suo messaggio ai profeti e ciascuno di essi ha completato l’opera del predecessore. Ciò non riguarda una sola religione, ma l’universalità del credo. Uccidere nel nome dell’islam è incomprensibile anche per noi.

Secondo lei un evento della portata di Charlie Hebdo potrebbe ripetersi anche qui? Si può prevenire?
Dobbiamo lavorare a lungo termine: moltiplicare gli incontri e le occasioni di dialogo. Occorre conoscerci reciprocamente e integrarsi nella società. È quando la comunità si chiude che diventa terreno fertile per tutti i “matti” fondamentalisti. Il mio messaggio è questo: che si dialoghi e che non si facciano ricatti, perché questo non aiuta l’integrazione.

Si parla di migliaia di europei partiti per combattere con Isis. Come mai, a suo parere, il messaggio fondamentalista ha così presa in Europa?
Perché gli Stati europei non prendono il fenomeno sul serio. Quando una comunità vive all’interno di una società più grande non si può nascondere in un angolo e vivere nell’oblio, deve dialogare, rapportarsi con l’esterno. Convivere con un’altra comunità vuol dire lasciarla libera di esprimersi, farla crescere e conoscerla, permettendole di partecipare alla vita della società. Se la si lascia crescere in un angolo, ai margini, non ci si può stupire quando emergono i problemi. Anche se abbiamo un bel giardino, ogni tanto dobbiamo zappare per togliere le erbacce. È un problema che riguarda la società europea: i musulmani in Occidente sono 20 milioni. Occorre a mio avviso, e siamo ancora in tempo, che noi responsabili insieme alle forze politiche iniziamo seriamente a dialogare e prendere in considerazione questi fenomeni.