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Crisi economica

L’Italia tra consigli e dubbi

Un nuovo Governo prima possibile «per fare quello che ci chiede l’Europa»

di Nicola SALVAGNIN

14 Novembre 2011

Come fare la ninna nanna agli investitori finanziari, e come obbedire all’Europa: questa la missione per la politica italiana, questo il credo che sembra condiviso dal popolo elettore e contribuente. Ma la prima cosa pare direttamente connessa alla seconda: se facciamo «quel che ci chiede l’Europa», i mercati – va da sé – si tranquillizzeranno.

Qualche dubbio sorge in proposito: da agosto a oggi abbiamo fatto più manovre di un gruista, e di queste i “mercati” si sono fatti fresco. Forse perché appunto non abbiamo fatto tutti i compiti che l’Europa ci aveva richiesto. Già, ma quali sono questi compiti per casa, che hanno messo l’alunno Berlusconi dietro alla lavagna, l’intera classe in ginocchio e fatto nascere la disperata speranza che il demiurgo Mario Monti faccia tutto per bene?

Sono decisioni politiche grosse così. Un vero e proprio programma di governo, che vorremmo affidare a un esecutivo “tecnico” con alle spalle i voti dei partiti. I quali si riconoscerebbero in un programma che, normalmente, li dividerebbero in parti opposte. Ma siccome hanno fallito il compito di decidere, ora sono chiamati a fare un passo indietro.

La lettera che la Bce (la Banca centrale europea, che il 5 agosto era gestita paritariamente dal presidente uscente Trichet e da quello entrante Mario Draghi) ha mandato a Roma – destinatario l’allora presidente del Consiglio Berlusconi – era piena di “buoni consigli” su come uscire dalla tempesta finanziaria che iniziava ad abbattersi sull’Italia. Da Francoforte s’intuiva che sarebbe diventata un ciclone spaventoso, che mirava in realtà ad abbattere l’euro, l’unica moneta senza un vero Stato alle spalle.

Primo buon consiglio: l’Italia spende troppo per la macchina statale, occorre «valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole del turn over e, se necessario, riducendo gli stipendi». La prima cosa è stata fatta ripescando una legge dello Stato (ne abbiamo così tante che basta mettere la mano dentro al sacco…) che prevede che i dipendenti pubblici in esubero possano essere trasferiti ad altra pubblica amministrazione, o collocati in una specie di cassa integrazione con l’80% dello stipendio per due anni. Quindi, espulsione dai conti dello Stato. In più, sono già state soppresse alcune indennità e rimborsi per trasferimento. Se del caso, taglio lineare degli stipendi: in Grecia, è stato del 40%…

Secondo punto: si consiglia di rafforzare gli accordi tra le parti a livello d’impresa (cosa da sempre osteggiata da Cgil), ma soprattutto si chiede di cambiare tout court il mercato del lavoro. Quindi nuove regole per l’ingresso (è troppo precarizzato), nuove regole per l’uscita (facilitare i licenziamenti individuali), nuovi ammortizzatori sociali per chi perde il lavoro, politiche attive per «facilitare la riallocazione delle risorse». Trovare larghe intese su simili temi sarà da SuperMario.

Terzo dubbio: basterà quota 67 anni per andare in pensione nel 2026?, si chiede la Bce. Cioè: viste le aspettative di vita crescenti, non è il caso di innalzare ancora di più la soglia d’età oltre la quale poter usufruire della pensione? Perché i 67 anni sono già stati recentemente “approvati”, ma sembrano ancora non bastare. Nel mirino sono soprattutto le pensioni di anzianità: 62 anni d’età, 35 di contributi. Esistono solo da noi, l’Europa ci chiede di cancellarle. E il vero obiettivo è quello di mandare tutti in pensione a quota 70 anni.

Quindi si innesta la quarta: liberalizzare, privatizzare. Parole d’ordine che, per un politico e un elettore di sentimenti socialisti, devono risultare urticanti. Ma tant’è, larghe intese. Quindi la Bce chiede “piena” liberalizzazione dei servizi pubblici locali (per esempio, treni, poste, fornitura gas e magari dell’acqua che un recente referendum italiano ha negato) e dei servizi professionali. Le varie multiutility locali andrebbero privatizzate (anche quelle dell’acqua); abbattute le barriere d’accesso alle professioni, e i tariffari minimi. Di tutto ciò si potrebbe discutere per mesi. Siccome in Italia lo si è fatto per decenni senza concludere un granché, ora siamo alla ghigliottina trancia-dubbi.

Infine fisco: spostare la tassazione dai redditi di lavoro – com’è ingiustamente oggi – alle rendite e sui consumi. Siccome l’Iva sui consumi è già stata aumentata di un punto (ma si può fare di più nel campo delle Iva agevolate), appare automatica la reintroduzione dell’Ici sulla prima casa. Come aperitivo. Poi, sarà frutto di fantasia tributaria. Speriamo che, nel frattempo, si ricordino di abbassare le aliquote sui redditi da lavoro…