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Economia

L’Ocse chiede riforme, ma senza il Sud?

Non c'è traccia del Mezzogiorno nell'agenda elettorale. Eppure, da quella metà del Paese dipende la possibilità di ripartire

di Nicola SALVAGNIN

18 Febbraio 2013

In una crisi in cui si continua a non vedere la luce in fondo al tunnel (le statistiche ci dicono che il Pil, la ricchezza prodotta in Italia, sta calando ancor più che nei mesi scorsi), arrivano ad un’Italia in fase elettorale le raccomandazioni dell’Ocse per stimolare quella ripresa economica senza la quale il tunnel rimarrà buio.Sono raccomandazioni importanti, per carità: l’istituto parigino che si occupa appunto di sviluppo economico raccomanda all’Italia di concentrarsi sulla produttività. Quindi su un insieme di questioni che spaziano dall’innovazione alle liberalizzazioni, da rapporti di lavoro più flessibili all’attenzione alla sostenibilità economica dei posti di lavoro, fino al capitolo dell’istruzione e della formazione. Sono raccomandazioni che hanno, non a caso, l’Italia come mittente. Da vent’anni non produciamo più nuova ricchezza, il nostro attuale benessere economico è frutto dei debiti che abbiamo contratto in tutto questo tempo: insomma ci siamo seduti sugli allori con un tenore di vita che non ci possiamo permettere. E l’Ocse sembra dirci che le cose vanno cambiate in profondità, nel Belpaese. Non a caso l’Italia è la nazione occidentale più immersa nella crisi (lasciando in un angolo le particolari situazioni di Spagna e Grecia), l’unica che non sta reagendo, l’unica che non sembra dare la sensazione di poter invertire la rotta. Bene: tutti buoni consigli che il prossimo governo avrà modo di apprezzare e valorizzare; oppure no. Arrivano oggi perché fuori dai nostri confini temono che la consapevolezza della nostra situazione non sia così piena né negli italiani, né in chi ci governa. Hanno di fronte l’esempio greco, di un Paese cioè che fino all’ultimo ha fatto l’esatto contrario di quanto si riprometteva di fare per non cadere nel baratro nel quale alla fine è precipitato. Finora siamo stati bravini, ma non si sa mai. Di buono, questi caldi suggerimenti hanno una cosa: ci fanno capire che molti problemi vanno affrontati alla radice, e non con un lifting superficiale che li lascia sostanzialmente irrisolti. Insomma, non vanno affrontati “all’italiana”. Non è più tempo di un tirare a campare che rischia invece di farci… tirare le cuoia. I media, soprattutto quelli europei, sottacciono l’incredibile situazione sociale che sta vivendo la Grecia, un Paese che sta letteralmente implodendo. Ma quell’esempio ci deve essere costantemente di monito. Abbiamo problemi strutturali gravissimi (si pensi alla nostra giustizia civile, solo per fare un esempio) che ci stanno zavorrando. Non è un caso quindi che la ripresa economica, tanto invocata, sia da più di dieci semestri una pura chimera. E ci permettiamo di ricordare che il problema numero uno, in Italia, è la metà del Paese stesso: quella che chiamiamo Mezzogiorno, quella che ha indici economici più vicini al Maghreb che all’Occidente. Disoccupazione (vera) da record, tasso d’imprenditorialità in calo, criminalità dilagante, istituzioni pubbliche farraginose o inadeguate, emigrazione in crescita. Il Mezzogiorno d’Italia non è un neo che guasta la festa, ma il problema che trascina un intero Paese in una spirale negativa. A Treviso o Como alcune aziende chiudono; a Enna o Crotone le aziende non ci sono proprio. Non tutto è da buttare, anzi. La Fiat sta concentrando i propri investimenti qui, ci sono zone in Campania, in Abruzzo, in Puglia ancora economicamente dinamiche, distretti industriali che meritano attenzione e incentivi veri e validi. Lo Stato, gli enti locali decidano dunque: il Mezzogiorno non va “foraggiato” ma reso fertile per una crescita che può e deve avvenire. E parliamo di infrastrutture (non solo autostrade ma anche internet), di servizi di una pubblica amministrazione snella e capace, di una bonifica dei territori dalle cosche, di strutture formative – dall’università in giù – che diano propulsione in loco all’attività economica, senza costringere i migliori ad andarsene. Parliamo della capacità di attrarre investimenti dall’estero, oltre che dal Nord: è possibile che si aprano aziende a settemila chilometri di distanza, e non a settecento, nello stesso Paese, con la stessa lingua e le stesse leggi? No, il Mezzogiorno non può essere un capitolo di un’agenda elettorale, o il nome di un ministero di terz’ordine. La Germania ha saputo recuperare la parte Est in vent’anni, che partiva da condizioni quasi proibitive a livello economico. Dobbiamo farlo anche noi, perché sarà un vantaggio per tutti: con decisione, abbandonando i mille errori del passato.