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Intervista

Magri: «Migranti, muri e fili spinati
non servono a nulla»

Il direttore dell’Ispi commenta i recenti provvedimenti di chiusura presi da alcuni Paesi europei e l’atteggiamento delle regioni del nord Italia: «I segnali politici sono talvolta discordanti rispetto alla solidarietà dimostrata sul piano pratico»

di Pino NARDI

24 Gennaio 2016
PAOLO MAGRI   ISPI

«Milano e la Lombardia sul piano pratico stanno facendo la loro parte nell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati. Purtroppo sul piano politico i segnali che talvolta provengono dalle regioni del Nord Italia sono discordanti rispetto alla solidarietà che, sul piano pratico, molte di esse stanno dimostrando». Paolo Magri, direttore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), tra i relatori della prima serata dei Dialoghi di vita buona, riflette sulla situazione dei flussi di rifugiati, ma anche sul significato dei muri che in Europa si stanno moltiplicando per fronteggiare questo fenomeno.

Davanti ai migranti diversi Paesi dell’Europa alzano muri, ipotizzano fili spinati alle frontiere, sospendono Schengen. Come valuta queste scelte e dove porteranno?
C’è chi i fili spinati non li ha solo ipotizzati, ma li ha proprio stesi. Talvolta si tratta di Paesi, penso all’Ungheria, che l’hanno fatto in buona parte per ragioni ideologiche e in questi casi non si può che provare indignazione nel constatare il riemergere di sentimenti xenofobi e razzisti che speravamo di avere relegato al libro nero della storia. In altri casi ci sono ragioni più profonde che spingono a reazioni così estreme. Alcuni Paesi, soprattutto in Europa orientale, non sono abituati a flussi così rapidi e copiosi di persone che attraversano le loro frontiere. Non avendo ancora completato il loro riavvicinamento ai livelli di benessere dei Paesi dell’Europa occidentale temono, a ragione o a torto, che l’arrivo di un gran numero di migranti possa abbassare nuovamente il loro tenore di vita. In questo caso ci vorrebbe dialogo, assieme alla garanzia da parte dei governi occidentali e scandinavi che l’Europa centro-orientale non sarà lasciata sola. Invece i forti contrasti degli ultimi mesi tra gli stessi Paesi occidentali non aiutano a creare le condizioni per convincere i governi dell’Europa dell’Est che tutti siamo disposti a fare la nostra parte.

Queste chiusure avranno ripercussioni sull’arrivo di migranti a Milano?
Non credo. A meno che il problema non si estenda all’Europa occidentale. Fino a oggi non ci sono segnali che spingano a ipotizzare che le persone che non possono viaggiare verso la Germania stiano cercando di venire in Lombardia, o comunque in Nord Italia. La stragrande maggioranza di queste persone considera l’Italia come un Paese di transito già quando arriva sulle nostre coste dalla Libia; a maggior ragione non guarda all’Italia come Paese di arrivo quando segue la rotta balcanica.

Si sta prospettando una modifica del Trattato di Dublino con la distribuzione dei migranti e una politica comune verso i rifugiati. Si arriverà a questo esito ed è la strada giusta?
Gli ultimi due anni hanno ormai dimostrato che in situazioni di flussi tanto elevati la pressione sui Paesi di primo arrivo (come Italia e Grecia) diventa rapidamente insostenibile. Non ci sono quindi alternative a una riforma di Dublino che chieda a tutti i Paesi dell’area Schengen di dare il loro contributo. Ma che si arrivi a questo esito è purtroppo tutt’altro che scontato: i governi preferiscono rimbalzarsi accuse reciproche anziché tentare di risolvere collettivamente la situazione; dall’altro questo atteggiamento sta rafforzando sentimenti xenofobi che andrebbero invece combattuti. Non dobbiamo comunque essere ingenui: l’esperienza ci insegna che nel flusso di persone che fanno richieste d’asilo si mescolano anche migranti economici, in questi mesi sempre di più. Le loro sono aspirazioni legittime, ma fare confusione e ipotizzare l’accesso a tutti potrebbe risultare controproducente, oltre che irrealistico.

Le ipotesi prospettate sulla Libia incideranno anche sugli sbarchi di profughi e rifugiati?
Difficile dirlo. La situazione di semi-anarchia che si è sviluppata in Libia è ormai radicata. Il traffico di esseri umani è diventato un business. In alcuni casi non è mancata la reazione della popolazione locale, che però tende a spegnersi man mano che la gestione dei flussi migratori diventa uno dei pochi modi per sopravvivere. In mancanza di un serio appoggio al nuovo governo da parte della comunità internazionale, sarà molto difficile che i recenti accordi riescano a mutare realmente questo stato di cose.