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Legge di stabilità

Niente macelleria sociale.
E neppure grandi svolte

Il Governo sceglie la strada degli aggiustamenti. Piccolissimo, forse impercettibile taglio del cuneo fiscale e poi tante limature per far quadrare i conti. In attesa di capire il vero peso della nuova tassa sui servizi locali, la Trise. Poi si aspetta che l'Europa si rimetta in moto e traini anche l'Italia...

di Nicola SALVAGNIN

16 Ottobre 2013
Enrico Letta

Come giudicare la legge di stabilità appena varata dal governo Letta? Dipende: se l’auspicio era quello di cambiare tutto per non cambiare nulla, c’è da esserne soddisfatti. E in Italia sono in milioni a volere che nulla cambi, anche se la situazione è quella che è. Chi invece sperava in una manovra di svolta, in un ruggito dopo tanti belati, non rimarrà deluso solo perché non si era prima illuso.

Già nei momenti preparatori si era capito l’andazzo: una limatina di qua, un’aggiustatina di là. Mai il discorso politico-economico era scivolato fuori dai consueti binari di questi mesi: «Adelante con juicio», dicono gli spagnoli. Avanti sì, ma senza strappi, passo dopo passo. E così è stato. Nonostante le dichiarazioni governative («è una manovra da investimenti e non da tasse»), lo sapevano anche i muri che bisognava raccattare alcuni miliardi di euro. Con due vincoli: non aumentare la tassazione; mettere una ciliegina su una torta che rischiava di risultare indigesta. Ciò ha costretto il governo a tagliare la spesa pubblica: la solita limatina alle pensioni (quelle oltre i 3mila euro lordi mensili non saranno rivalutate al costo della vita); il solito taglietto alle retribuzioni dei dipendenti pubblici, con congelamento per un altro anno dei contratti e altro ancora.

La ciliegina poteva invece essere saporita. Il cuneo fiscale è, in pratica, la differenza tra lo stipendio netto del lavoratore dipendente e il salario lordo in carico all’azienda. In Italia questa differenza è enorme, dovuta all’alta tassazione e ai contributi Inps. Enrico Letta aveva annunciato un deciso taglio al cuneo. Ne è partorito un topolino da 2,5 miliardi di euro che, nel migliore dei casi, permetterà ai lavoratori a medio-basso reddito di ritrovarsi uno stipendio più alto di 10-15 euro.

Pochi? Teniamoceli cari, perché l’Imu uscita dalla porta tornerà come Trise, che assorbirà appunto imposte sulla casa, sui rifiuti e altri servizi pubblici. Se l’obiettivo era quello di rilanciare i consumi lasciando più soldi nelle tasche degli italiani, si può già dire fin da oggi che tale obiettivo farà la fine dell’identica manovra fatta nel 2007 dal governo Prodi: di quel mini-taglio del cuneo fiscale non se ne accorse nessuno.

Quindi la realtà è un’altra, anche se sottaciuta. Questo governo non farà mai alcuna “macelleria sociale”, ma pure nessuna riforma strutturale dell’economia di questo Paese. Lo governerà in modo soft, aspettando che la ripresa economica arrivi sotto altre forme: l’abbassamento dello spread sui titoli di Stato ci regalerà alcuni miliardi di euro di minori spese per interessi; il rilancio delle altre economie europee ci porterà un piccolo effetto-traino; il progressivo scioglimento della congiuntura libererà nuove risorse finanziarie da banche che oggi sono sull’orlo del precipizio.

Aggiungiamoci qualche artifizio contabile (la rivalutazione del patrimonio della Banca d’Italia), il progressivo spegnimento della onerosa voce “cassa integrazione”, un più intelligente utilizzo dei fondi europei, la cartolarizzazione degli immobili di proprietà pubblica e altro ancora, e pure l’Italia dovrebbe ricominciare a camminare. Senza alcun cambiamento strutturale, ma pure senza manifestazioni di piazza.

Se tutto ciò invece non dovesse avverarsi, parleremo di grande occasione perduta in questi anni in cui si poteva e forse doveva cambiare questo Paese. Ma lo faremo domani, non oggi.