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Medio Oriente

“Primavera araba”,
i rischi della democrazia

Nuovi scontri in Egitto, il presidente Morsi costretto alla fuga. Il parere di Pasquale Ferrara, segretario generale dell’Istituto universitario europeo

di Patrizia CAIFFA Agenzia Sir

5 Dicembre 2012
Egyptian protesters demonstrate outside of the presidential palace in Cairo on December 4, 2012, against President Mohamed Morsi's decree widening his powers. Tens of thousands of demonstrators encircled the presidential palace after riot police failed to keep them at bay with tear gas, in a growing crisis over President Morsi. AFP PHOTO/GIANLUIGI GUERCIA

In Egitto esplodono di nuovo le proteste, con scontri in piazza contro le riforme volute dal presidente Mohamed Morsi, costretto a lasciare il palazzo presidenziale. I manifestanti protestano contro la Costituzione e il decreto presidenziale con il quale Morsi si è accresciuto i poteri, a danno della magistratura.

Sulle fatiche del processo democratico incontrate dalla cosiddetta “primavera araba”, il parere di Pasquale Ferrara, segretario generale dell’Istituto universitario europeo, con sede a Fiesole. A suo avviso la “primavera araba” è «un processo che sarà necessariamente lungo, problematico. Non tutto ciò che accade è positivo, soprattutto riguardo l’area dei diritti. Dipende dal fatto che le società si sono messe in marcia, in una direzione che ci può piacere o meno. Ma è uno degli elementi fondamentali dell’apertura democratica. Ci sono dei rischi, dovremo cercare di capire insieme come gestirli. Certo non attraverso il rifiuto del dialogo o la stigmatizzazione».

Ancora scontri in Egitto: la “primavera araba” si sta rivelando un boomerang?
Quando si apre un sistema politico a una più ampia partecipazione ci sono rischi da mettere in conto, dovuti alla democrazia, che non sempre dà dei risultati auspicabili da una parte o dall’altra. In questi momenti bisognerebbe chiedersi qual è l’alternativa: tornare al sistema politico dell’epoca di Mubarak o Ben Ali, quando questi partiti erano considerati fuorilegge e non potevano partecipare alle elezioni? Non è meglio avere l’Islam politico all’interno del sistema istituzionale piuttosto che fuori? È una fase di transizione necessariamente convulsa. Non sappiamo come andrà a finire, perché potrebbe portare ad un irrigidimento del sistema gestito dall’islamismo. Ma non direi che non vale la pena provare la strada democratica. Certo, insieme alle regole democratiche bisogna anche lavorare per creare una cultura democratica. Bisogna constatare se c’è l’attaccamento ai valori democratici, se c’è il pluralismo, se c’è la libertà della società civile, strumenti altrettanto essenziali della democrazia. Non bastano solo le elezioni e le maggioranze a legittimare una nuova classe di governo. È necessario anche il resto.

I manifestanti egiziani però protestano perché sentono tradita la rivoluzione…
Certo, questo è un elemento di grande preoccupazione. Hanno ragione a protestare. Tuttavia, siamo davanti a un’elezione, non siamo davanti a un usurpatore del potere. Ma la legittimazione di un nuovo governo avviene anche attraverso un processo d’inclusione. Il mandato elettorale non va interpretato a favore di una parte e a discapito di un’altra. Un presidente dovrebbe rappresentare un intero Paese, comprese le forze di opposizione. Tutto il discorso funziona da un punto di vista teorico. Il problema è che in Paesi in cui si esce da un sistema politico bloccato per decenni bisogna costruire la cultura democratica. E questo non è affatto semplice. I nostalgici di Mubarak, secondo me, hanno torto. Noi occidentali abbiamo sostenuto per decenni dei regimi tutt’altro che democratici per interessi legati all’energia, al flusso dei migranti e per ragioni legate alla sicurezza, ma abbiamo confuso la sicurezza con la continuità. È arrivato un momento in cui questa equazione è diventata insostenibile. Il punto non è dire: aveva ragione Mubarak o Ben Alì. Il problema è riuscire a gestire questo rischio.

L’Europa dovrebbe giocare un ruolo più attivo con questi Paesi?
La mia impressione è che l’Europa finora non abbia detto una parola chiara sulla “Primavera araba”: è una cosa positiva o negativa? È qualcosa che immette nel circuito dei rapporti euro-mediterranei un elemento di speranza o accresce ancora di più la diffidenza e la paura? Credo che gli Stati Uniti siano stati molto più pronti a dare un segnale di sostegno, pur con tutti i distinguo e le precisazioni che vanno fatte. L’Europa è andata invece un po’ in ordine sparso. A livello di approccio politico mi sembra prevalga ancora un senso di diffidenza o di attesa. Secondo me, ci vorrebbe un impegno molto più forte. In Europa – in Italia, Germania, Francia, Belgio… – ci sono state esperienze forti d’impegno politico motivato da convinzioni religiose. Tutta l’esperienza della Democrazia cristiana ha avuto un valore fondamentale. Bisognerebbe allora cominciare un dialogo serio con l’Islam politico per condividere queste esperienze. Sottolineare che è possibile un impegno politico sulla base di convincimenti religiosi cercando, al tempo stesso, il pluralismo, rispettando il quadro istituzionale e i processi democratici. Su questo siamo stati molto timidi. È un contributo concreto che l’Europa, sulla base della sua storia politica, potrebbe dare all’Islam politico. Dimostrare cioè che, se c’è stata una Democrazia cristiana, può esistere anche una Democrazia islamica (non islamista).

Però nelle società civili di questi Paesi il dibattito pubblico sembra volgere più su derive islamiste che sulla democrazia da costruire…
Sì, sono dibattiti abbastanza fisiologici se si apre un sistema sociale e politico alla partecipazione. A mio parere, non esiste uno scontro di civiltà. Esistono degli scontri all’interno delle civiltà: visioni diverse su come una cultura o civiltà debba organizzarsi, che attraversano in modo trasversale la stessa Europa e molte parti del mondo, dove è in discussione il modello di società, il ruolo della religione, la dimensione dei diritti individuali e lo spazio dell’identità collettiva. Sono questioni enormi che non possono essere ridotte a scontri tra fazioni, è il riflesso di un disagio che viene da molto più lontano.