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Intervista

Rosina: «Serve un piano che porti agli Stati Uniti d’Europa»

Il demografo e docente della Cattolica riflette sul futuro del continente, davanti al bivio tra saggezza e risentimento evocato dall’Arcivescovo all’inaugurazione dell’anno accademico dell’ateneo: «Se prevarranno la forme di chiusura proposte dalle forze sovraniste e populiste rischiamo tempi bui»

di Pino NARDI

25 Novembre 2018
Alessandro Rosina

«Se le forze sovraniste e populiste prevarranno, rischiamo davvero tempi bui. Quando si è aperta l’Europa è uscita dal Medioevo per accendere il faro su un futuro diverso». Lo sostiene Alessandro Rosina, docente di Demografia e direttore del Center for applied statistics in business and economics dell’Università cattolica di Milano. Una riflessione a partire dall’intervento che l’Arcivescovo monsignor Mario Delpini, presidente dell’Istituto Toniolo, ha tenuto lunedì 19 novembre in occasione dell’apertura dell’anno accademico dell’ateneo di largo Gemelli.

Parlando in Cattolica monsignor Delpini ha detto che l’Europa ha un’anima ferita e che può prendere solo due strade, quella della saggezza o del risentimento. Come valuta questa riflessione?
La condivido pienamente. Ma la tentazione del risentimento in questo periodo storico è molto alta. Sono ancora aperte le ferite di una crisi economica che ha inciso pesantemente sulle condizioni materiali di molte persone e famiglie, ma che ha anche incrinato la fiducia nei confronti delle istituzioni e del futuro. La crisi stessa non era stata prevista e questo ha fatto perdere credibilità verso i sistemi esperti che guidano la nostra economia e verso la classe politica. L’Europa, in particolare, è apparsa più come un funzionario rigido, attento alle regole e a imporre austerità, che un accompagnatore premuroso e solidale a cui sorreggersi nell’attraversare la recessione. Ora che la crisi è formalmente passata non esiste un’idea chiara di cosa siamo ora di diverso da prima e come possiamo essere migliori di prima, in coerenza con le sfide nuove di questo secolo. Così, anziché aprirsi, i cittadini sono indotti a diventare più cauti e diffidenti. Ma quello che oggi serve è un’Europa migliore, più saggia, non certo la chiusura proposta dai sovranismi.

Mai come in questi mesi si giocherà il futuro dell’Europa che abbiamo conosciuto negli ultimi settant’anni di pace e benessere. Secondo lei quanto spazio avranno le forze sovraniste e populiste?
Il sovranismo è una ricetta che guarda al passato, che ci vincola a rimanere nel Novecento per timore dei nuovi rischi di questo secolo; ma così ci priva anche di possibilità di crescere e di ritrovare fiducia in percorsi nuovi e più aperti. Viviamo in un mondo sempre più complesso e, in carenza di una classe dirigente saggia e lungimirante, vince chi propone ricette semplici, chi individua colpe esterne, chi rassicura promettendo ai cittadini che gli altri non avranno di più, anziché fornire strumenti attivi, abilitanti, avanzati per crescere tutti assieme. Se le forze sovraniste e populiste prevarranno rischiamo davvero tempi bui. Quando si è aperta l’Europa è uscita dal Medioevo per accendere il faro su un futuro diverso.

Se si è arrivati a questo punto, una forte responsabilità ricade anche su classi dirigenti che hanno sviluppato un’Ue troppo burocratica. Quali strade percorrere per rilanciare il sogno di un’Europa solidale?
La storia va comunque nella direzione dell’apertura, dei flussi di persone, di idee, di esperienze senza vincoli geografici. I confini possono riemergere in una fase di cambiamento d’epoca in cui è chiaro quello che rischiamo di perdere, ma non ancora sufficientemente evidente quale nuovo mondo stiamo costruendo, quale posto ha l’Europa, ha l’Italia, abbiamo noi. Il ruolo dell’Europa deve essere questo: non un condominio da gestire, ma piuttosto uno spazio aperto di coworking, in cui ciascuno nella propria diversità contamina positivamente gli altri, trovando assieme le soluzioni più innovative ed efficaci per creare ricchezza e benessere. Serve quindi un piano che porti agli Stati Uniti d’Europa, con alla base un modello sociale costruito con il protagonismo positivo delle nuove generazioni.

La questione migranti è utilizzata per alimentare paure per fini di propaganda politica. Eppure un’Europa che invecchia ha anche bisogno di loro. Come valuta questa contraddizione?
L’Europa, come conseguenza della denatalità, presenta profondi squilibri demografici, in particolare nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni, che andranno progressivamente a indebolire la capacità di produrre crescita e risorse per finanziare il sistema sociale nei prossimi anni e decenni. Le difficoltà delle nuove generazioni e le disuguaglianze sociali devono quindi trovare risposta convincente, all’interno di un modello di sviluppo che integri anche la possibilità di un rafforzamento con chi arriva dall’estero. Solo mettendo assieme tutte le leve, compresa la ripresa della natalità, l’Europa potrà crescere in modo solido. Ma oggi sembra più facile arrendersi ai timori del presente e dare attenzione a chi promette di far assottigliare di meno la propria fetta di torta, che sentirci chiamati tutti a partecipare a un processo che in prospettiva consente di allargare la torta stessa.

Quanto i giovani saranno decisivi per un’Europa unita?
I motivi che sono stati alla base del progetto europeo non sono necessariamente gli stessi che lo rendono vincente oggi. Le vecchie generazioni tendono a sovrastimare i rischi e a sottostimare il valore delle nuove sfide, ma faticano anche a trasmettere ai giovani stimoli e motivazioni per viverle essi stessi da protagonisti. Questo produce due conseguenze negative: l’ostilità verso i processi di cambiamento da parte dei più anziani e la mancanza di strumenti per orientare positivamente le scelte dei più giovani. Questo disorientamento, che poi diventa resistenza e ostilità, è forte soprattutto nei giovani delle classi sociali medio-basse. Se la fiducia nelle istituzioni europee continua a essere maggiore rispetto alle istituzioni politiche italiane e se l’idea di mobilità e interscambio appassiona i giovani con maggior capitale umano e sociale, esiste però una fascia consistente di giovani che si sente esclusa dalle nuove opportunità e che, di fronte alle difficoltà occupazionali e all’impatto dell’immigrazione, non ha visto dalle istituzioni europee risposte rassicuranti e convincenti. È soprattutto sulla capacità di coinvolgere e convincere questa componente, con progetti specifici, che si gioca il successo del futuro dell’Europa.

Il sogno europeo è stato pensato e realizzato nei decenni scorsi da politici di ispirazione cristiana. Come i cattolici in particolare possono contribuire a sostenere anche nella società l’idea di un vivere insieme senza chiusure ed egoismi?
La via è quella indicata dall’Arcivescovo, e sta nel prendersi cura dell’anima dell’Europa, non solo del suo funzionamento tecnico. Questa è la premessa per orientare la speranza e combinarla con la lungimiranza, in modo che le nuove generazioni possano guardare oltre le paure del presente e immaginare un futuro comune da costruire assieme.25

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