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Riflessione

Scola: un bene comune chiamato clima

L’Arcivescovo su “Il Sole 24 Ore”: «Tra la vita dell’uomo e la vita del pianeta non c’è soluzione di continuità. Di entrambe siamo chiamati a farci carico secondo quell’“ecologia integrale” che papa Francesco domanda con forza nella sua Enciclica»

del cardinale Angelo SCOLA Arcivescovo di Milano

7 Luglio 2015

Pubblichiamo l’intervento del cardinale Angelo Scola apparso su “Il Sole 24 Ore” del 5 luglio 2015

Nel giro di qualche decennio il clima è cambiato. Ai più l’osservazione appare a tal punto ovvia da non aver bisogno di essere dimostrata. Quello dei negazionisti, ormai, sembra un gruppo sempre più ridotto, con il quale però è bene mantenere un confronto.

Impariamo ogni giorno dai giornali che si intensificano le cosiddette “calamità naturali” (tifoni, uragani, alluvioni…), la riduzione dei ghiacciai, delle foreste e delle colture perenni, l’innalzamento del livello dei mari e la conseguente erosione delle coste, l’avanzamento dei deserti, il deterioramento dei suoli… Una cosa comunque è certa: a pagare il conto più salato sono i Paesi a reddito medio-basso, le cui popolazioni si vedono costrette a emigrare. Dalle regioni sub-sahariane da anni è in atto un esodo di proporzioni sempre più vaste. Secondo gli esperti anche i cambiamenti climatici si traducono in condizioni di vita sempre più precarie per i piccoli produttori agricoli e per le famiglie rurali indigene. Eppure proprio loro sono la”spina dorsale” della produzione agricola e agro-alimentare nei Paesi a reddito medio-basso.

Se da una parte, quindi, sono gli attori-chiave della lotta alla fame, dall’altra però costituiscono i gruppi sociali più marginali e vulnerabili, con minore accesso ai servizi essenziali di salute ed educazione e con minore “voce” politica, per la loro dispersione sul territorio e per la lontananza, anche geografica, dai centri del potere politico. Ancora oggi gran parte della povertà estrema è concentrata nelle zone rurali; inoltre, non è difficile riscontrare nei massicci processi di inurbamento, con l’ampliarsi delle periferie delle megalopoli, l’effetto diretto dell’abbandono delle campagne – per necessità o per disperazione.

Quali risposte dare a questi problemi? La parola risposta ha la stessa radice di responsabilità. E la responsabilità, come insistentemente ricorda Papa Francesco nella sua ultima Enciclica, è sempre sia comunitaria – fino ai più ampi e alti livelli sociali e politici -, sia personale – fino a toccare ciascuno di noi, a incidere sui nostri stili di vita quotidiana. «Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti. Esso, a livello globale, è un sistema complesso in relazione con molte condizioni essenziali per la vita umana» (Papa Francesco, Laudato si’, 23). È auspicabile che la “Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici” (COP21), che si svolgerà a Parigi il prossimo dicembre, possa favorire significativi passi in avanti in questo senso.

A livello globale, la sfida del cambiamento climatico ha portato, secondo gli studiosi, a identificare due tipi di politiche: politiche di “mitigazione” e politiche di “adattamento”. Le politiche di mitigazione sono tese a ridurre quella componente del cambiamento climatico imputabile ai comportamenti umani. Si tratta, in sostanza, di limitare le emissioni di gas a effetto serra sia sul fronte tecnologico-produttivo (fonti di energia “verde”, processi produttivi a bassa intensità energetica, eccetera), sia sul fronte dei comportamenti individuali e sociali (riduzione degli sprechi e degli eccessivi consumi energetici). In pratica, occorre individuare e applicare opportune soluzioni tecnologiche, insieme a politiche che inducano comportamenti individuali e sociali appropriati (per esempio attraverso regolamentazioni ambientali e forme innovative di tassazione). Domandano una profonda azione educativa tesa a introdurre nuovi stili di vita. Anche se necessari, anzi indispensabili, essi non potranno mai da soli sostituire quel cambiamento (la Laudato si’ parla addirittura di conversione) di mentalità e comportamento a cui, soprattutto noi nord-occidentali, siamo urgentemente richiamati.

Le politiche di adattamento, invece, hanno lo scopo di ridurre al minimo i costi economici, sociali e ambientali del cambiamento climatico che si è già realizzato e che sarebbe ragionevole attendersi anche per il futuro, dato che, persino nelle prospettive più rosee, le politiche di mitigazione potranno forse rallentarlo, ma non eliminarlo. Le politiche di adattamento sono essenziali specie nelle zone rurali dei Paesi più a rischio.

In questa prospettiva, l’intera strategia di sviluppo rurale ha bisogno di essere ripensata in termini di reale possibilità di permanenza delle popolazioni locali sui loro territori. Sappiamo che queste popolazioni hanno un intenso legame spirituale, culturale, sociale ed economico con la loro terra. Per loro “la terra è vita”, letteralmente. Per ridurre i rischi e contenere le perdite associate agli eventi climatici estremi, però, non bastano soluzioni tecnologiche o provvedimenti regolativi. Occorre una risposta a più livelli, fatta “su misura” per le esigenze locali, affinché le popolazioni non siano costrette a migrare.

C’è dunque una notevole differenza fra le due tipologie di politiche delineate dagli esperti, sia nella loro natura, sia nella predisposizione a farsene carico da parte degli attori responsabili. Le politiche di mitigazione richiedono investimenti che spesso attivano nuovi settori produttivi, realizzando nuovi beni di consumo. Insomma, anche nel breve periodo, creano business. Le politiche di adattamento, invece, comportano investimenti immediati che produrranno solo benefici futuri… e benefici non monetari, che si manifesteranno sotto forma di costi evitati. Pertanto: niente, o ben poco, business.

L’importanza di queste politiche a livello locale non sembra riconosciuta a giudicare dai dati che abbiamo a disposizione. Circa l’80% dei fondi legati al cambiamento climatico sono infatti destinati a progetti di mitigazione attraverso nuove tecnologie energetiche, mentre per i progetti di adattamento climatico – così essenziali per la sicurezza alimentare del pianeta e per la lotta alla povertà – rimangono solo le briciole.

Forse conviene ricordare una volta di più la seconda parte del titolo di Expo 2015: l’energia è per la vita. E tra la vita dell’uomo – di ogni uomo – e la vita del pianeta non c’è soluzione di continuità. Di entrambe siamo chiamati a farci carico e a prenderci cura secondo quell’“ecologia integrale” che Papa Francesco domanda con forza nella sua recente Enciclica.

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