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Proteste

Tav, le ferite riaperte

Dalle troppe parole proclamate sui media bisogna passare (tornare) alle parole del confronto e del dialogo, sulle questioni concrete

di Marco BONATTI

5 Marzo 2012
Demonstrators of the "No Tav" (No to High-Speed Trains) movement try to pass a police fence on October 23, 2011 in Chiomonte, to reach the construction zone of the future tunnel. The protest organised by the No Tav (No to High-Speed Trains) movement and residents of the Susa Valley have fiercely opposed the plan, saying the construction of tunnels would damage the environment. France and Italy signed a deal in 2001 on building a line through the area, a strategic link in the European network that would cut travel time between Milan and Paris from seven to four hours. AFP PHOTO/ OLIVIER MORIN

Negli ultimi 30 km di territorio prima della Francia sembrano essersi riaperte tutte le ferite che l’Italia, in 40 anni, non è mai stata capace di cicatrizzare e, quindi, di far guarire. Le ferite, prima di tutto, di un tempo che speravamo non dovesse più tornare: il ragazzo che si gioca la vita sul traliccio sembra la citazione di Giangiacomo Feltrinelli, che la vita buttò via, sotto un altro traliccio, giusto il 14 marzo 1972. E con l’editore “rivoluzionario” sembrano tornare tutti i fantasmi di quegli anni: la giustizia “popolare”; l’intimidazione dei privati cittadini; il (falso) dibattito tra libertà d’espressione e mantenimento della legalità; i politici che saltano sul carro della protesta mettendo in imbarazzo, proprio come negli anni Settanta, soprattutto il Pci (e oggi i suoi eredi del Pd). Sono tornati, anche gli infiltrati, i provocatori, i violenti di professione, che hanno trovato (o inventato?) un altro “giocattolo” per le loro consuete attività.

E però il No Tav non è solo questo, anzi. Il treno è diventato il feticcio di tutti gli antagonismi presenti in questo Paese. Intorno a quegli scavi si è concentrata una mobilitazione senza precedenti, una rabbia diffusa e capillare che sembra investire, molto più che la Tav, il tema dell’appartenenza e della cittadinanza in questa Repubblica. Il vero successo dei No Tav consiste, ci pare, nell’aver dato forma mediatica al disagio e al disgusto che molti altri italiani provano nei confronti della politica, del Palazzo, delle innumerevoli caste che incombono sulle nostre teste e nelle nostre tasche. Loro sognano, senza prometterla, una società diversa.

Si vuole fermare il treno perché in realtà si vorrebbe fermare il mondo, e scendere: anche se al momento si ottiene di uscire, più che altro, dalla razionalità e dalle logiche e dalle prassi delle democrazie rappresentative. Come se fosse davvero possibile proclamare la “libera repubblica della Maddalena” o credere sul serio che il Principato di Seborga sia uno Stato sovrano. E non è certo menando i giornalisti e insultando i Carabinieri che si dà prova di realismo, né di intuito politico.

E però quello del “fermare il mondo” è tema serissimo, soprattutto per i cattolici. A cominciare dal Papa, c’è oggi una critica quasi unanime a un modello di sviluppo socialmente sempre più ingiusto, economicamente squilibrato e instabile, divoratore di risorse naturali e stili sobri di vita. Il no al treno incrocia questi temi e intercetta queste sensibilità. Ma il risultato è un paradosso: per affermare il principio del “mondo nuovo” bisogna rinunciare alla legalità e accettare come compagni di viaggio i violenti e i provocatori?

C’è poi, nei No Tav, la tentazione del successo mediatico. Le manifestazioni dei giorni scorsi hanno ricevuto grandissima attenzione e spazi enormi, nella solita tv che disdegna le notizie e privilegia le chiacchiere e le emozioni. Ma anche questa, della protesta amplificata a dismisura dalle immagini tv, è un’arma che si sta consumando: l’Alta Valle assediata non può permettersi molti altri week-end senza autostrada e senza sciatori… Il riemergere dei “Sì Tav” in Valsusa forse aiuterebbe a riportare il confronto entro confini circoscritti – ma molto più concreti.

Ci sono troppe parole, nella Tav. E ognuna di esse ha generato sempre nuove ambiguità. C’è un progetto di treno elaborato e portato avanti in passato senza cercare il vero coinvolgimento della gente locale: e ora si paga prima di tutto l’arroganza di chi – da Roma più che da Torino – non ha voluto investire sul confronto, il dialogo, la costruzione del consenso. Il modo in cui il medesimo progetto si sta realizzando in Francia non lascia, in questo senso, spazio ad alcun equivoco. E dunque ben vengano le iniziative costruttive di confronto, come vuole il Governo.

I paletti sono quasi ovvii: alla legalità non c’è alternativa, esattamente come non c’è alternativa alla lotta contro l’evasione fiscale. E il Codice penale è lo stesso per tutti. Ma ogni altro passo è possibile: la protesta non violenta come l’apertura di confronti nel metodo e nel merito (fermo restando che la decisione sulla Tav è stata presa non da una cricca privata, dalla mafia o dalla Spectre, ma dai Parlamenti e dai Governi di due Repubbliche libere e sovrane).

Dalle troppe parole proclamate sui media bisogna passare (tornare) alle parole del confronto e del dialogo, sulle questioni concrete. Sarebbe appunto il compito della politica, a Roma, a Torino, in Valle. Bisogna sperare che ce la faccia.