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Diventare prete in una società frantumata

L'augurio ai nuovi presbiteri da parte di chi celebra il 50° di sacerdozio: all'odierna condizione culturale un prete deve far fronte con tutta la sua solidità esistenziale, per evitare il rischio di un'alterata visione ecclesiale: la grazia di Dio e la spiritualità della tradizione ambrosiana sono sostegni sicuri

5 Giugno 2008
alla scrivania. mezzo busto.

06/06/2008

di Luigi MANGANINI
Vicario episcopale per la Pastorale e i sacramenti
Arciprete del Duomo

Volentieri, pur senza nascondere una certa difficoltà, mi rivolgo ai Candidati al presbiterato, a partire dai miei 50 anni di Ordinazione presbiterale.

In questo mezzo secolo la società è diventata molto complessa, a rischio di frantumazione. Nei primi anni del mio ministero si viveva ancora nell’“ebbrezza” della Ricostruzione del dopoguerra; la Chiesa era monolitica nelle sue impostazioni e con un’accentuazione prevalentemente etica rigorista nella sua pastorale di base.

La società odierna invece appare frantumata, con un accentuato orientamento a una dimensione individualista dell’esistenza e quindi a un vissuto di Chiesa dove l’impianto conciliare è ormai consolidato, ma risente certamente di spinte verso una concezione individuale della fede. Da qui, per esempio, il fenomeno recente di gruppi legati a persone, non sempre autenticamente carismatiche.

Espressione di questo individualismo è una concezione estetica della liturgia, la cui dimensione comunitaria, faticosamente ricostruita dopo il Concilio, èmessa in discussione da unilaterali tendenze a un rapporto con Dio che non tiene in considerazione il suo collocarsi in sinu Ecclesiae.

Un sacerdote novello si trova quindi in una condizione culturale ed ecclesiale cui deve far fronte con tutta la sua solidità esistenziale, evangelicamente impostata ed ecclesialmente corretta. In altre parole, ciò che può giocare un brutto scherzo a un giovane prete è un’alterata visione ecclesiale.

La diocesi di Milano, al riguardo, con la sua forte spiritualità ereditata dalla tradizione, veicolata dalla sua liturgia ambrosiana e attualizzata dai suoi sapienti pastori, dal beato cardinale Schuster al cardinale Montini, dal cardinale Colombo al cardinale Martini, fino ad arrivare al cardinale Tettamanzi, offre a un prete “giovane” una solidità spirituale e pastorale impareggiabili.

Vi confesso che in momenti difficili della mia esistenza sacerdotale o in alcuni periodi di confusione, quali furono quelli intorno al 1968, accanto al dono della fede mi è stata di grande aiuto la mia precoce, ma anche educata, tendenza a considerare la Chiesa ambrosiana quale punto sicuro di riferimento.

Ho esercitato lo spirito critico in misura sufficiente, ma per quanto concerne le mie destinazioni, non ho mai dimenticato il monito del mio antico Rettore monsignor Giovanni Colombo, che mi disse come al sacerdote diocesano spetta il diritto della penultima parola, ma all’Arcivescovo spetta il diritto dell’ultima.

Per un prete diocesano il riferimento alla propria Chiesa e al proprio Arcivescovo è fondamentale. Il tutto, a mio avviso, va vissuto in una logica di dedizione che tenga conto, senza esagerare, delle proprie forze. Quando un prete si dedica alla propria comunità con abnegazione e con grande cuore, ha non solo il diritto, ma anche il dovere di ritemprare le sue forze con lo studio e l’orazione, con la pratica di qualche piccolo svago e soprattutto mantenendo, da persona adulta, un sano rapporto con la propria famiglia d’origine.

La fede nel Signore, la consapevolezza del proprio ministero, il lavoro continuo sul proprio carattere, il riconoscimento di qualche zona d’ombra che inesorabilmente in esso si cela, sono ingredienti di una sana, equilibrata e felice esistenza presbiterale. L’impegno non è indifferente, ma la grazia di Dio fa delle belle sorprese; l’avventura presbiterale vale la pena di essere vissuta anche nell’attuale società frantumata, in cui la Chiesa mantiene le radici nel suo passato e rivolge il tronco e i rami all’avvenire.