Share

Profeti di speranza in un Paese lacerato

Il rapimento di monsignor Faraj Rahho, vescovo di Mosul, evidenzia la drammatica situazione dei cristiani iracheni. Intervista a don Renato Sacco di Pax Christi Italia

5 Giugno 2008

04/03/2008

a cura di Daniele ROCCHI

«Ci ha accolto a Karamles quando siamo arrivati con la delegazione di Pax Christi. Era consapevole che la vita per i cristiani a Mosul non era tranquilla. Mi disse che aveva ricevuto parecchie minacce, ma che non potevano impedirgli di stare in mezzo alla gente. “Non possiamo restare chiusi in casa – diceva – non posso abbandonare i miei fedeli. Non si può cedere alla logica della paura”».

Don Renato Sacco di Pax Christi Italia – che ha fatto parte della delegazione internazionale recatasi recentemente in visita in Iraq – traccia il ricordo di monsignor Faraj Rahho, arcivescovo di Mosul, rapito venerdì 29 febbraio da un gruppo armato che ha ucciso le tre persone che erano con lui. Il rapimento, il secondo di un vescovo cattolico in Iraq, e l’assassinio sono il paradigma della condizione in cui versano le comunità cristiane irachene, minacciate, costrette alla fuga, nel silenzio quasi totale della comunità internazionale.

Quanto accaduto a mons. Rahho e ai tre giovani che erano con lui ripropone con crescente drammaticità la condizione in cui versa la minoranza cristiana irachena…
L’unica strada per sconfiggere la violenza è l’incontro e il dialogo: è la lezione di monsignor Rahho. Per questo speriamo che possa essere liberato e tornare a essere, con la sua gente, segno di speranza e di pace. Va anche sottolineata la grande testimonianza dei tre giovani che erano con lui, che lo accompagnavano nei suoi spostamenti senza mai lasciarlo solo. La situazione dei cristiani resta drammatica. Nel corso della visita nel nord iracheno abbiamo incontrato trenta comunità di profughi composte da persone rapite e poi liberate, percosse, minacciate perfino anche attraverso mail e sms. A migliaia sono fuggiti, specie da Baghdad e Mosul. I profughi non hanno lavoro e non possiedono nulla. Il costo della vita è alto, la benzina supera il dollaro al litro, non c’è elettricità, i generatori funzionano, ma a costi elevati…

Davanti a questa realtà esiste un futuro per i cristiani in Iraq?
I cristiani non devono cadere nel vittimismo, anche se la loro tragedia si tocca con mano. Non dobbiamo essere profeti di sventura e cadere nella tentazione di dire che per i cristiani non c’è più spazio in Iraq, che sono perseguitati e che il Paese non esiste più. Così facendo toglieremmo ancora più ossigeno a chi vive lì e a chi vuole restare per lavorare e recuperare speranza, fiducia e profezia. Non vogliamo soccombere, ma essere profeti di speranza.

Cosa potrebbero fare governo iracheno e comunità internazionale?
Entrambi devono ricordare che ci sono profughi e rifugiati che non vanno lasciati soli, ma messi nelle condizioni di restare nel proprio Paese implementando la cura e l’assistenza materiale. Non abbiamo visto organizzazioni umanitarie agire per questi profughi, che hanno solo l’aiuto del Kurdistan. Il rispetto dei loro diritti non deve passare per regali. Purtroppo l’attenzione è rivolta alla spartizione delle ricchezze petrolifere e territoriali irachene. Anche le Chiese con i loro vescovi devono richiamare l’attenzione ai bisogni dei rifugiati poiché quando costoro intuiscono uno spiraglio di miglioramento il primo pensiero è quello di rientrare. E un ritorno dei cristiani nei luoghi di origine equivarrebbe a reinserire nella vita del Paese quei valori di perdono e di riconciliazione che vengono loro riconosciuti.