Sirio 26-29 marzo 2024
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Quella sentenza di assoluzione

«...là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l'altro a sinistra. Gesù diceva: "Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno"...» (Lc 23,33-34)

5 Giugno 2008

21/03/2008

di Erri DE LUCA

Fino all’ultimo istante della sua appartenenza al corpo continuò a insegnare. Non si concesse un po’ d’intimità e di silenzio con se stesso. Sapeva che ogni sua sillaba sarebbe stata sigillata in una memoria assetata.

Sapeva rovesciare la sconfitta in trionfo e riuscì a sollevare a grandezza di pulpito l’osceno patibolo romano della croce. Fino all’ultimo rimase fedele alle parole con cui aveva iniziato la missione, proclamando il primato degli ultimi, la letizia dei calpestati in cuore. Era il più bravo a rovesciare l’ordine delle precedenze in terra, a sovvertire i traguardi.

Chiese dal suo patibolo, perché gli altri lo udissero, il perdono per i suoi assassini. Si rivolse al cielo ad alta voce per chiedere ascolto in basso. Faceva così sapere che lui – vinto nel peggiore dei modi – intercedeva per i vincitori che lo stavano ammazzando. Certo della sua vittoria finale, si faceva difensore di quelli che avevano prevalso su di lui in terra in una piccola scaramuccia di accuse infondate.

Riusciva così a trasmettere fiducia nei suoi discepoli, sgomenti dall’arresto, dalla condanna, dall’esecuzione. Dimostrava loro la superiorità delle sue parole su qualunque potenza terrena. Fu stratega del suo messaggio fino all’ultimo fiato. Costruì fin dentro la rovina della morte.

Non importava se lui perdonava, se rimetteva il debito a chi gli faceva il peggiore dei torti. Il suo perdono personale era un dettaglio. Contava invece la sua pubblica richiesta di perdono presso un tribunale superiore. Lui, parte lesa, non solo non si costituiva in processo contro i suoi boia, ma ne prendeva le parti. Rovesciando i ruoli li sbaragliava più profondamente.

«Perché non sanno quello che fanno»: ecco il dispositivo della sua sentenza di assoluzione per loro. Non la formula piena, che sarebbe stata: «Perché il fatto non sussiste». Il fatto sussisteva e come. Il patibolo della croce si sarebbe trasformato in eterno marchio di fabbrica. Oggi si direbbe “logo” e sarebbe tutelato da brevetto. Invece: assolti perché non sanno quello che fanno, assolti cioè per incapacità di intendere e volere. Assolti con la più mortificante delle attenuanti.

Non era un atto di generosità da parte sua, ma il passaggio finale di una totale sconfitta dei suoi vincitori provvisori. Che siano risparmiati e non gravi su di loro la responsabilità del delitto: perché erano in manifesta inferiorità di fronte alle loro azioni. Ecco la mazzata finale, avrebbe fatto il giro del mondo, sarebbe rimasta nell’orbita stazionaria della storia. E ci si trova ancora qui a sviscerare la sua frase senza poter intendere l’abisso di pensiero e di sentimenti che la suscitarono.