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All’Assemblea missionaria il ricordo di fratel Bargiggia

L'incontro sul tema della povertà si terrà a Milano in via S. Antonio 5. Saranno presentati anche i quattro progetti per la Quaresima

13 Gennaio 2009

14/01/2009

di Luisa BOVE

Si parlerà di povertà all’Assemblea diocesana missionaria che si terrà a Milano il 17 gennaio. In quell’occasione sarà ricordato fratel Antonio Bargiggia, il missionario laico ucciso a 43 anni il 3 ottobre 2000 in Burundi dove viveva “povero tra i poveri”. Fin da ragazzo aveva partecipato a un campeggio estivo organizzato dal Vispe, l’Ong fondata da don Cesare Volontè. Mentre in Antonio cresceva il desiderio di una vita spesa per gli ultimi, in casa i genitori desideravano per lui un futuro diverso. La sua famiglia di tradizione comunista non vedeva di buon grado che il figlio si dedicasse ai poveri rinunciando a una vita agiata. In parrocchia invece non mancava chi lo incoraggiava nella sua scelta. In particolare i coniugi Peroni, che lo “adottarono” seguendo da vicino la sua vocazione.

Partito come volontario per il Burundi a soli 21 anni, Antonio entrò poi nella Congregazione dei “Fratelli dei poveri”. «I genitori lo ostacolavano in tutti i modi», racconta Anita Peroni, 82 anni, che lo ha visto crescere in quartiere, «anche la sorella ha sempre detto: “Io ho fatto la mia scelta ed è giusto che lui faccia la sua”». Ma la madre non voleva, mentre il padre alla fine si rassegnò.

Dalla missione fratel Antonio ha sempre scritto ai suoi “genitori adottivi” e inviato foto. «Quando tornava in Italia veniva a trovarci e ci portava qualche regalo, piccoli oggetti africani. Io e mio marito lo abbiamo sempre incoraggiato, era un ragazzo d’oro», assicura la signora Anita. «La vocazione che ha avuto era più forte di lui. Con noi si confidava e cercavamo di aiutarlo. Quanti ricordi…».

Una volta fratel Antonio le disse con rammarico: «Ho 36 anni e mia madre mi rimprovera ancora di aver fatto questa scelta». E ripensando alla morte di quel «bravo ragazzo», la donna oggi dice: «Non doveva fare quella fine, solo per un orologio e un paio di sandali. È stato ammazzato per niente». Fratel Antonio infatti si spogliava di tutto, non teneva nulla per sé. Ucciso da 4 uomini armati mentre viaggiava con la sua Toyota bianca sulla strada da Mutoyi a Bujumbura.

«Lo chiamavano “San Francesco di Buterere” perché viveva povero fra i poveri», continua Peroni. Aveva infatti scelto di abitare in una baracca di lamiera come la “sua” gente, in una bidonville alla periferia di Bujumbura. E quando nel 1993 è scoppiata la guerra civile in Burundi fratel Antonio è rimasto al suo posto, non ha voluto rientrare in Italia, ma rimanere tra i suoi amici africani. Andava a visitare i prigionieri politici (hutu) nel carcere di Mpimba e i feriti (tutzi) ricoverati all’ospedale militare di Kamenge. Forse anche per questo la Regione Lombardia nel 2001 gli ha conferito alla memoria il “Premio annuale per la pace”.

Aveva preso molto a cuore il compito di cappellano della prigione e tre mesi prima di morire, nel luglio 2000, aveva scritto una lunga lettera a don Cesare raccontando come avevano vissuto il Giubileo delle carceri voluto da Giovanni Paolo II. Dopo l’omelia 20 prigionieri avevano ricevuto il battesimo e altrettanti la cresima. «Io ero davvero commosso – scriveva -, soprattutto quando nel discorso finale di circostanza, un carcerato diceva che per tanti di loro adesso il carcere non è un luogo di reclusione, ma di liberazione dal peccato».