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Intervista

Apeciti: «Malato di Covid, sognavo di vedere il Duomo»

Il rettore del Pontificio Seminario Lombardo racconta l’esperienza della malattia («pensavo di essere alla fine, ho lasciato fare a Dio») e della quarantena vissuta nell’Istituto: «Mai rassegnarsi, vale sempre la pena rinnovare il nostro impegno»

di Annamaria BRACCINI

2 Agosto 2020
Monsignor Ennio Apeciti

Un’isola di Lombardia nel cuore di Roma, per ospitare giovani sacerdoti, ancora impegnati negli studi di teologia e altre sacre discipline. Questa è stata, fin dalla fondazione, la mission del Pontificio Seminario Lombardo, che oggi, tuttavia, ha tra i suoi studenti anche seminaristi e preti provenienti da tutt’Italia e anche dall’estero. Una realtà importante che, naturalmente, non è stata risparmiata dalla pandemia. A guidarlo dal 2014 è l’ambrosiano monsignor Ennio Apeciti, anche responsabile del Servizio diocesano per le Cause dei santi e consultore della Congregazione delle Cause dei santi.

Come vi siete comportati nei momenti più duri della diffusione del virus?
Pensavamo di essere esenti, lontano dalle terre più martoriate, ma poiché due dei nostri studenti erano stati in zona di epidemia a Bergamo, abbiamo dovuto chiudere per quasi due mesi e mezzo, in un lockdown voluto dall’Azienda sanitaria locale. Ognuno dei 25 preti presenti in quel momento viveva nella propria camera, fornita di servizi. L’isolamento però è stato utile, perché siamo comunque riusciti a organizzarci, non potendo ovviamente più contare sul consueto personale incaricato della cucina e delle pulizie. Abbiamo per esempio formato squadre per pulire pavimenti e ascensori. Inoltre potevamo contare su una grande fortuna: poter passeggiare nella terrazza dell’ultimo piano da cui si gode uno splendido panorama sulla basilica di Santa Maria Maggiore, potendo spaziare con lo sguardo fino a San Pietro. Certo, stringeva il cuore vedere, dall’interno, il pesante portone di ingresso sempre sprangato, ma era necessario.

Tutto questo è servito ad arginare il contagio? Lei personalmente, lontano da Milano, da casa, dalla Diocesi, come ha vissuto la situazione?
Certamente, le precauzioni previste – che abbiamo seguito rigorosamente e con attenzione – hanno avuto effetti positivi, ma per esempio io mi sono ammalato e sono stato ricoverato al Policlino Gemelli. Ho vissuto il Covid 19 in un duplice modo, direi, perché le previsioni per la mia salute erano davvero sconfortanti. È stato interessante ascoltare dai medici che, forse, ero arrivato alla fine. Questo paradossalmente mi ha aiutato, perché ho capito anzitutto che l’essenziale era lasciar fare a Dio. E poi un secondo elemento, poiché ho anche compreso che era necessario infondere, in ogni caso, entusiasmo nei giovani preti del Lombardo – persone normalmente tra i 30 e i 35 anni -, convincendoli a credere che vale la pena comunque impegnarsi.

Insomma, ha sviluppato quella “sapienza” che viene dall’alto, ma scende nelle pieghe dell’esistenza concreta di ogni giorno, che chiede l’Arcivescovo nella sua Proposta pastorale… 
Diciamo che ho tentato. Chiuso, distante da Milano, con nel cuore la nostalgia, ho pensato che fosse importante sviluppare maggiormente il dialogo con  con gli amici, con i preti lontani. È stato un dare forza, così, anche a me stesso, perché sentivo che potevano essere le “ultime volte”. Questo condividere mi ha aiutato molto e credo che abbia spinto anche altri a dire che non bisogna rassegnarsi mai, qualunque cosa accada.

Quando ha capito che sarebbe uscito dal Coronavirus, che cosa ha desiderato?
Sognavo di vedere la Madonnina, il Duomo, di incontrare il mio Arcivescovo che è un amico, e di tornare nel Seminario di Venegono, che ha significato tanto nella mia vita. Mi piace ricordare che, quando l’allora arcivescovo Scola mi chiese di venire a Roma a fare il Rettore, appena uscito dal suo studio un po’ confuso, andai in Duomo e passeggiai presso le tombe degli Arcivescovi di Milano. Il Duomo dà sempre forza a un prete ambrosiano.

Nella prima lettera per l’inizio dell’Anno pastorale, intitolata «Se ti è caro ascoltare, se porgerai l’orecchio, sarai saggio», l’Arcivescovo fissa per il 4 ottobre la Domenica dell’Ulivo, indicando un segno di pace e rinascita. Festeggerete anche voi, per così dire, “ambrosianamente”?
Per un caso fortunato, proprio il 4 ottobre ricominciamo le nostre iniziative, i corsi e il ritrovarci tra noi. Sarà bello che in quel giorno, l’ulivo, anche al Lombardo, possa diventare il segno di un nuovo inizio e dell’entusiasmo che, come dicevo, cerchiamo di comunicare con rinnovato impegno.

Il Seminario

Il Pontificio Seminario Lombardo dei Santi Ambrogio e Carlo in Urbe nasce formalmente nel 1865 in alcuni locali presso San Carlo al Corso per il desiderio di alcuni seminaristi e sacerdoti ambrosiani di completare gli studi teologici presso le Università Pontificie. Con il passaggio di Roma all’Italia nel settembre 1870 venne chiuso e riaperto solo nel 1878 non più in via del Corso, sede ormai troppo angusta per il numero crescente di studenti, ma in via Belli. Tra questo nuovo nucleo di studenti figurava Achille Ratti, che sarebbe diventato papa Pio XI. Per evitare ogni accusa di modernismo, papa Pio X nel 1913 ordinò la fusione del Lombardo con il Seminario Romano, ma già nel 1920 Benedetto XV restituì al Lombardo la sua autonomia, fissandone la sede in via del Mascherone: qui studiò un altro futuro Papa e Santo: Paolo VI. Pio XI, ex alunno, volle che il Lombardo si trasferisse in Piazza Santa Maria Maggiore, all’ombra della Basilica. Qui durante la Seconda guerra mondiale furono nascosti 114 tra ebrei e ricercati politici, tra i quali Giovanni Roveda, uno dei dirigenti del Pci. Nel 1963 Giovanni Battista Montini benedisse la prima pietra del nuovo edificio, che desiderò rappresentasse un “modello” di Seminario per il terzo millennio e con tali desideri Paolo VI lo inaugurò l’11 novembre 1965.