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Commento

Discorso alla Città, un invito a guardare avanti

In un contesto sociale più attento a resistere al cambiamento che a costruire opportunità, per il Rettore del Politecnico Ferruccio Resta il documento richiama alla responsabilità personale per realizzare il bene comune, soprattutto a beneficio dei giovani. Pensando a loro, nel patto tra Governo, imprese e sindacati evocato dall’Arcivescovo, gioca un ruolo anche l’università

di Ferruccio RESTARettore del Politecnico di Milano

15 Dicembre 2019
Ferruccio Resta

«Siamo autorizzati a pensare», ci diceva un anno fa l’Arcivescovo, rivolgendosi alla città di Milano. Essere autorizzati a pensare significa, prima di tutto, saper mettere in discussione il nostro ruolo e il nostro operato come cittadini, come genitori e figli, come istituzioni e imprese. Là dove in molti vedono certezze, il pensatore riconosce il dubbio.

Nel 2019 il discorso dell’Arcivescovo è un invito al fare. «Benvenuto, futuro!», un messaggio che è un richiamo alla responsabilità personale come mezzo per realizzare il bene comune. Come valore essenziale per ridare vita a quel senso di appartenenza spesso evanescente in una società dominata da spinte opportunistiche. Perché è solo così che possiamo accogliere il futuro, non con facili promesse o sterili denunce, ma con senso di responsabilità, tracciando orizzonti lontani che non si esauriscono nel consenso immediato, nel qui e ora.

È con la distanza che riusciamo a dare la giusta dimensione ai problemi. È solo così che possiamo sperare di ridare fiducia a chi verrà dopo di noi. Aiutare le nuove generazioni a realizzare quel cambiamento che oggi sembra difficile, se non impossibile. A loro vogliamo insegnare l’ottimismo. Non quello facile, superficiale, a buon mercato, ma quella forza che sfugge al fatalismo cronico di questo Paese. Che antepone al pessimismo generale la scommessa che certe mète si possano raggiungere con fatica, sacrificio e impegno.

Peggio sarebbe se ci chiudessimo a riccio sul presente, se ci arrendessimo al battibecco anziché al dialogo, se ci abbandonassimo alla lamentela anziché all’essere propositivi. Milano è una città che non si sottrae all’idea di una crescita condivisa e partecipata, all’impegno educativo, all’accoglienza. Una città che fa del proprio meglio per non lasciare indietro nessuno, dai più svantaggiati ai più giovani.

A loro penso, ai giovani, ai ragazzi che ogni giorno incrocio nelle aule universitarie, che a fatica intravedono segnali di speranza nel futuro. A loro mi riferisco quando dico che è un dovere della società adulta guardare lontano, prendere distanza dall’ordinario, mettere a fuoco l’immagine di un’Italia che molti dipingono come in stagnazione, ma nella quale io ritrovo tanta energia e creatività, forza e voglia di ricominciare. Non accontentiamoci di facili gratificazioni.

Questo a partire dal delicato, quando fondamentale tema dal lavoro, unico e vero strumento di uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Condivido appieno le parole di monsignor Delpini quando dice: «Credo che la politica nazionale, le amministrazioni locali, le organizzazioni sindacali, le associazioni degli imprenditori e tutte le forze sociali siano chiamate a un salto di qualità nella loro opera e a una convergenza lungimirante nella loro visione, perché il tema cruciale del lavoro non sia un argomento per emergenze, ma per la programmazione». Un concetto che ho ribadito con forza durante l’ultima inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico di Milano.

La verità è che oggi stiamo progettando il passato. Pensiamo a facili rimedi, mettendo in crisi il valore della competenza, circoscrivendo i problemi a singoli episodi isolati, proponendo soluzioni immediate che non tengono conto della complessità. Assistiamo a una discussione pubblica sempre in difesa, più attenta a resistere al cambiamento che non a costruire nuove opportunità. Ma se pensiamo al domani dei nostri studenti dobbiamo cambiare. Questi ragazzi, ai quali lasciamo in eredità questioni importanti e irrisolte (dal cambiamento climatico al riassetto del mondo del lavoro), non meritano di ricevere in dote un messaggio che tutti noi ormai accettiamo con rassegnazione: quello di un Paese senza avvenire.

Per questo penso che in quel grande patto tra Governo, imprese e sindacati evocato da monsignor Delpini debba partecipare, di diritto, anche l’università. Dobbiamo ristabilire un patto intergenerazionale che, prima di tutto, valorizzi le competenze dei nostri laureati. Questi ragazzi hanno ottimi livelli di studio, hanno fatto più esperienze in giro per il mondo a vent’anni di quante non ne abbia fatte io in tutta la vita. Dobbiamo saper rappresentare le loro ambizioni, coltivare il loro talento, aiutarli a trovare gli strumenti migliori per cogliere la difficoltà dei cambiamenti in atto.

Tra le tante sfide che li attendono c’è quella dell’intelligenza artificiale, dei big data, della robotica… Tecnologie che promettono di cambiare il nostro modo di vivere e di lavorare, di relazionarci gli uni con gli altri, di introdurre nuove professioni che non riusciamo neppure a immaginare. Un cambio di marcia epocale, che porta con sé molti vantaggi e altrettanti rischi, che vanno capiti fino in fondo e condivisi secondo logiche di lunga distanza. E questo possiamo farlo solo a partire dallo studio e dalla conoscenza, attraverso la condivisione e la fiducia, con senso di responsabilità e coraggio.

Il nostro compito non può limitarsi a impartire nozioni, deve piuttosto seminare una conoscenza che sia la combinazione tra sapere, senso critico, rispetto, cura e attenzione per gli altri. Solo così possiamo dare il benvenuto al futuro. Solo rimettendo l’individuo e i suoi bisogni al centro di uno sviluppo che deve rimanere “umano”.

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