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Editoriale QUANDO L’UOMO DIVENTA “PERIFERIA A SE STESSO”

5 Giugno 2008

di Claudio Mazza

Periferia ed emarginazione, prossimità e disagio, l’anima e il cuore della città, il primato e la centralità della persona, la città casa di tutti: sono concetti che si ritrovano in molti interventi del Cardinale Tettamanzi. Digitando sui motori di ricerca in internet queste parole, associate al nome dell’Arcivescovo, appaiono videate intere di discorsi, omelie, pronunciamenti dove tali concetti sono sviluppati e messi a fuoco – partendo, di volta in volta, da angolature diverse – sotto la lente della dimensione pastorale e missionaria della Chiesa ambrosiana.

Nel “discorso alla città” di quest’anno, in occasione del tradizionale incontro della vigilia di Sant’Ambrogio, il Cardinale ha coniugate tutte queste parole attorno a un’idea centrale: «Se la città ha un cuore e un’identità, non ci sono più periferie». Di qui ha preso corpo il discorso dell’Arcivescovo.

Anzitutto si è domandato: cos’è la periferia? L’etimologia rimanda rimanda a un’idea di perfezione, di cerchio, di abbraccio, di accoglienza. Ma esprime anche distanza dal centro, che non è un punto geometrico ma il cuore, l’anima della città. Ecco allora la periferia come allontanamento, emarginazione, isolamento, dove prevalgono solitudine, paura, violenza.

Ma la periferia non è da intendersi solo come luogo, ma anche in senso tipicamente umano: può l’uomo diventare “periferia a se stesso”? Sì, risponde l’Arcivescovo, quando perde la propria identità, le proprie radici; quando si allontana dalla propria umanità. La riqualificazione delle periferie non può allora prescindere dall’ascolto e dal coinvolgimento di chi ci abita.

Né va sottaciuta o sottovalutata la fuga dalle periferie verso luoghi ritenuti più a misura d’uomo: se la fuga è solo spaziale non risolve il problema, bensì dilata la periferia. «Si esce dalla città, ma poi ci si ritorna per lavoro o per acquisti o per trovare momenti di svago, si passa da un centro commerciale all’altro, si vive e ci si muove insieme, ma isolati. E così anche queste nuove periferie rischiano di diventare cerchi concentrici di egoismo, di solidarietà frantumata, di socialità offesa, di violenza».

Quali i rimedi possibili? L’Arcivescovo suggerisce «di non dimenticare e non oscurare la domanda di senso che sta nel nostro cuore», custodendo in particolare la “dimensione dell’interiorità”. Essa sola, infatti, può restituire l’anima alla città e quell’identità che non abbia paura dell’altro, che non vada allo scontro ma all’incontro: «Dobbiamo uscire da uno schema di contrapposizione di identità, di culture, di religioni. Non potrà mai avere un’anima una città dove convivono senza incontrarsi, ma si ghettizzano, rendendole “periferia” le une alle altre, comunità diverse».

Ed eccoci alla questione fondamentale: occorre rimettere al centro la persona. La “ricetta” che l’Arcivescovo propone, perché la città non smarrisca il suo cuore vivo in periferie vecchie e nuove, è quella di «riscoprire il primato della persona e onorare nella concretezza della nostra vita quotidiana l’incommensurabile sua dignità».

«La persona è un “io” aperto al “tu”» che sappia convivere «con l’altro e per l’altro», suggerisce il Cardinale. Qui sta la chiave di volta della città, che non ha cuore se non sviluppa luoghi di prossimità e di rispetto reciproco. Ma qui sta pure il senso della politica, che è quello, dice il Cardinale Tettamanzi, di «creare tutte le condizioni che rendano possibile essere persona in pienezza, che non tradiscano la persona, che ne ricollochino la dignità e il valore al centro della moderna civiltà».