Sirio 26-29 marzo 2024
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Quaresima

«Gesù è con tutti gli uomini
che muoiono e si dona loro»

Nella terza Via Crucis presieduta in Duomo la riflessione dell’Arcivescovo si è concentrata sulle Stazioni dall’VIII all’XI: «Dal pomeriggio del Calvario nessun uomo che muore è solo»

di Annamaria BRACCINI

1 Aprile 2014

Il cammino di Quaresima che si addentra verso gli eventi finali e che racconta, dall’VIII alla XI Stazione, le ultime tappe della via dolorosa di Gesù. In Duomo il cardinale Scola guida la terza Via Crucis e, tra le navate in cui i fedeli si affollano fino alle porte e, oltre, sul sagrato, ripercorre l’angosciosa salita al Calvario. “Salita” ben presente anche nelle esperienze finali della vita dell’uomo e di chi assiste impotente alla morte. Eppure – sottolinea subito l’Arcivescovo – proprio «da quel drammatico pomeriggio sul Calvario di duemila anni fa, nessun uomo che muore è solo. Gesù è con tutti gli uomini che muoiono, non è un’illusione, non è una favola, condivide ogni spasimo della loro agonia e si dona loro».

L’Elevazione musicale che precede la Celebrazione, eseguita al grande organo della Cattedrale dal maestro Vianelli, la Parola di Dio, il Vangelo di Luca, i Salmi, le belle testimonianze di Benedetto XVI, del beato Giovanni XXIII, di Paul Claudel e di San Bonaventura, i canti: tutto rende più intensamente partecipata la serata dal titolo “Padre, perdona loro”, animata dalla presenza di quanti arrivano dalle Zone pastorali II (Varese) e III (Lecco), accompagnati dai rispettivi Vicari episcopali, Agnesi e Rolla. Ci sono gli aderenti a Comunione e Liberazione, al Cammino Neocatecumenale, a Rinascita Cristiana, a CVX (Comunità di Vita Cristiana) e al Movimento giovanile Salesiano. 

Dall’incontro di Gesù con le donne di Gerusalemme, «quasi che il metodo della preziosissima e umana esperienza dell’incontro, con cui il Signore ha voluto farsi presente agli uomini, ci venisse consegnato come estrema, preziosa, eredità che dobbiamo trafficare», nasce il primo richiamo del Cardinale, che cita le parole della testimonianza del Papa emerito: «La nostra vita è una cosa seria, ma noi, per la nostra costitutiva fragilità e per il contesto in cui siamo immersi, siamo portati a banalizzarla, a mettere un silenziatore sulla responsabilità di ogni nostra singola azione che invece ci segue ovunque. Il Signore ci avverte del pericolo in cui siamo, ci mostra la serietà del peccato e la serietà del giudizio. Non siamo forse, nonostante tutte le nostre parole di sgomento di fronte al male e alle sofferenze degli innocenti, mostrate in maniera esasperata dai mass media, troppo inclini a banalizzare il mistero del male?». Come a dire: ai piedi della croce, di fronte al sacrificio dell’Innocente per eccellenza, occorre guardare con occhi nuovi alla morte di ogni innocente e alla vita di ognuno di noi.

Ed è allora il Signore stesso «che poteva non salire sulla Croce e lo ha fatto non per masochismo, ma per estremo dono di sé», con la sua caduta, il suo essere insultato e percosso dai flagellatori, a indicarci la strada del voler bene «anche a quelli che ci fanno del male e che forse dinnanzi a Dio sono più buoni di noi», come scriveva il prossimo santo Giovanni XXIII.

«Quale equivoco circola, oggi, sull’amore che, dobbiamo continuamente imparare – osserva Scola – e che domanda, perciò, educazione: ecco il ruolo dei genitori, degli insegnanti, della Chiesa, degli oratori, preziosissima perla pastorale della nostra Diocesi, delle aggregazioni, delle articolazioni, dei movimenti e associazioni ecclesiali».

Si arriva così alla X Stazione, “Gesù è spogliato dalle vesti”: un Cristo al quale si prende tutto – scriveva Claudel -, un Gesù «che si lascia liberamente spogliare di ogni suo diritto divino e che restituisce al nostro corpo la sua dignità originaria perché lo destina apertamente alla resurrezione». Una simile spoliazione, come la definisce il Cardinale, non può che avere conseguenze anche sul nostro modo di vivere il corpo e gli stili di vita, «nel modo di volerci bene e di trattarci reciprocamente», consapevoli come siamo, o dovremmo essere, della risurrezione che ci attende.

Non a caso, la splendida vetrata quattrocentesca di Pietro da Velate, scelta per l’occasione, alludendo con chiarezza, attraverso il corpo del Cristo comunque «sereno e luminoso» a un oltre, «verso cui anche noi ci incamminiamo», offre quel presagio di resurrezione «che può liberarci da ogni caduta fisica e morale e da ogni rischio di malinconia e presa di distanza gli uni della altri». L’ultima Stazione – è l’Arcivescovo a guidare la processione verso l’altare maggiore – è “Gesù inchiodato sulla croce”. «Abbracciare Cristo, passo, morto e risorto, che non solo si dona, ma per-dona, moltiplicando questo stesso dono», diviene così «esperienza indispensabile per la vita dell’uomo, della famiglia, della Chiesa, della vita buona della società e del mondo».

Un mondo che vorremmo migliore e per il quale il Cardinale, in questo tempo privilegiato di Quaresima, chiede di «andare in profondo», con la penitenza, il sacramento della Riconciliazione, il digiuno e i gesti di fraternità richiamati dalla Diocesi, ma anche con il silenzio, con cui tutti escono dalla Cattedrale.

Così il cielo si unisce alla terra

In un’atmosfera rarefatta, livida di bagliori metallici, gesti e sguardi sono come fissati in un’istantanea che pare ormai senza tempo. Dove tutto si compie, nel capo reclinato di Gesù inchiodato alla croce, nel volto attonito del fariseo, nella rigida posa del centurione, perfino nel vuoto garrire degli stendardi... Come accade, appunto, negli antelli che compongono la parte centrale della grandiosa vetrata nell’abside del Duomo di Milano con la splendida Crocifissione quattrocentesca, scelta come «icona» del terzo incontro del cammino quaresimale, guidato dall’Arcivescovo in Cattedrale. Per lungo tempo si è fatto il nome del Foppa, il padre nobile della pittura lombarda del Rinascimento, come ideatore di questa mirabile opera. E anche oggi che più non si osa una così precisa attribuzione (la presenza del bresciano Vincenzo, del resto, non figura nei pur dettagliati registri della Fabbrica), nessuno storico dell’arte sembra poter rinunciare almeno all’aggettivo «foppesca», per questa straordinaria composizione. Anche se poi bisogna riconoscervi influssi, oltre che naturalmente lombardi (gli Zavattari su tutti), anche veneti e ferraresi (da Mantegna a Cosmè Tura), e perfino d’Oltralpe, con accenti della tradizione francese e tedesca, sia vetraria che pittorica. Risultato, d’altra parte, di quell’incredibile cantiere multiculturale che si animava attorno all’erigendo Duomo di Milano, ancora nella seconda metà del XV secolo. Qui l’alta, altissima Croce svetta a congiungere definitivamente il cielo e la terra. Quella terra aspra e sassosa, lo si nota, dalla quale è duro ricavare di che vivere, e nella cui polvere si frantumano le ossa del progenitore Adamo. Nell’attesa del nuovo e ultimo Adamo, il Risorto, che condurrà per mano l’umanità nell’Eden di delizia, infine e per sempre ritrovato.