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Approfondimenti

Il celibato dei preti sotto accusa

Nel contesto del dibattito creatosi dopo la pubblicazione del libro del cardinale Sarah, con un contributo di Benedetto XVI, pubblichiamo un breve saggio di Stefano Guarinelli, sacerdote, psicologo e psicoterapeuta

di Stefano GUARINELLI*

20 Gennaio 2020

Nel contesto dell’attuale querelle mediatica sul libro Dal profondo del nostro cuore del cardinale Robert Sarah, con un contributo del papa emerito Benedetto XVI sul celibato sacerdotale, presentiamo un breve saggio di don Stefano Guarinelli: «Il celibato sotto accusa» (Rogate ergo 82, 2019, 20-23) Già autore de Il celibato dei preti. Perché sceglierlo ancora? (Paoline 2015), Guarinelli è docente di Introduzione alla psicologia e Psicologia pastorale presso il Seminario Arcivescovile di Milano, oltre che presso altri istituti di formazione teologica. Si ringrazia l’editrice Rogate ergo per la concessione a pubblicare.

È difficile confrontarsi su un tema qualsiasi se si è deciso in partenza che sarà comunque da mettere sotto accusa, oppure, al contrario, sicuramente da scagionare. Così, non di rado, il dibattito sul celibato – che vero dibattito appunto non è – finisce per assomigliare a quelle diatribe tra tifosi di calcio, utili esclusivamente a ribadire il proprio schieramento, non certo a persuadere l’interlocutore. Che infatti non si persuade per niente, né mai lo farà.

Vorrei provare a uscire dalla dialettica calcistica – piuttosto improduttiva – e provare a fissare qualche coordinata. Non sono stato investito del compito di decidere alcunché, e meno male. Chissà che un piccolo contributo alla riflessione non possa aiutare coloro che, nella Chiesa, invece, sono chiamati anche a decidere.

Inizierei con un’affermazione ovvia, ma, nei fatti, spesso in ombra: il celibato in se stesso non è un valore. Dunque, «difendere» il celibato come se, in se stesso, fosse un valore non ha senso, perché non lo è. Il celibato sacerdotale è un celibato per il Regno. Una tale qualifica è tutt’altro che secondaria. È precisamente tale qualifica a rendere il celibato un valore. Curiosamente quella qualifica sistematicamente scompare, sui giornali e sui media, ogni volta che si parla del celibato sacerdotale. Sarà questione di brevità, sarà pure che i riferimenti ad un «Regno» appaiono obsoleti (dunque fondamentalmente incomprensibili), di fatto, trascurando la qualifica si perde di vista proprio ciò di cui il celibato vuole essere espressione. A quel punto è inevitabile che non lo si capisca.

I sacerdoti sono stati messi recentemente alla gogna a motivo del gravissimo scandalo degli abusi. Si tratta di abusi sessuali, certo. Parliamo dunque di comportamenti che mostrano un rapporto cattivo, perfino patologico, con lo spazio della sessualità. Siccome nell’esperienza del sacerdozio è presente quel celibato che, comunque, coinvolge la vita sessuale e siccome, appunto, non se ne capisce il senso, è quasi giocoforza legare la patologia a quel «non senso». Se nella vita del sacerdote cattolico è presente un punto evidente di vulnerabilità, la «colpa» dei problemi sarà da ricondurre alla vulnerabilità. La si chiama diffusamente legge della catena di bicicletta: è noto che in presenza di una sollecitazione eccessiva, quella si rompa nel suo punto più debole. Pare logico; perché affermare il contrario?

Allora sarà importante dare un’occhiata.

Cos’è il celibato per il Regno? Si tratta di una condizione esistenziale che, perfino provocatoriamente (o profeticamente), intende incarnare in modo singolare la relazione con Dio e quella con i fratelli. Il che significa che del celibato di un prete dovrebbero «vedersi» quelle due realtà. Se di un prete celibe, invece, si vede soprattutto che è celibe, significa molto probabilmente che il suo celibato «non sta funzionando» troppo bene.

Si potrebbe legittimamente obiettare – e in effetti non pochi obiettano, sia dentro la Chiesa, sia al di fuori della Chiesa – che in realtà le radici storiche del celibato sono da tutt’altra parte. Le cose stanno ancora peggio, poi, se si va a indagare il suo vincolo giuridico con il sacerdozio. Il dibattito è controverso e sicuramente ancora aperto. Vorrei dire, ad ogni buon conto, che non è poi troppo strano che nella vita sociale o nella vita personale, talora ci si ritrovi all’interno di situazioni che, nate sotto la spinta di uno stato di necessità, o di emergenza, o perfino imposte dall’esterno, vengano comunque mantenute perché, indipendentemente dalla loro provenienza, si rivelano buone e promettenti per il «qui ed ora». Una donna potrà provare un giusto risentimento e perfino rabbia esplicita realizzando che l’uomo che oggi è suo marito, in realtà, le fu imposto da altri o dalle circostanze, e che a lei, a suo tempo, non fu data la possibilità di scegliere. Per questo lo lascerà? Forse sì, o forse no. Dipende. Quella donna, che pure sa quanto le radici del proprio legame affettivo siano contrassegnate dalla mancanza di una decisione personale, potrà aggiungere oggi a quella valutazione altri elementi. Il primo e più importante: amo quest’uomo? Lo amo oggi, indipendentemente dall’origine del nostro legame? Sarebbe perfino assurdo giungere a sciogliere la relazione con una persona che oggi amo, solo perché non fui io, a suo tempo, a scegliere di amarla. Ciò non toglie l’ingiustizia del passaggio di allora; eppure, oggi, io l’amo. Come la mettiamo?

Estendiamo il riferimento personale in un senso sociale. La storia umana – dunque pure la storia del cristianesimo – è costellata di imperfezioni, perfino di malefatte che sono rimaste imperfezioni e malefatte, e che pure si sono rivelate felices culpae per ciò che da quegli eventi comunque è scaturito.

Dunque? Dunque, se «colpa» non ci fu e, anzi, ci furono ragioni «forti», teologiche, tanto meglio; se, invece, «colpa» ci fu, perché accanirsi a dibattere sul senso attuale del celibato esclusivamente a partire da un «difetto di fabbrica» risalente a secoli addietro? Comunque sia, nel primo caso come nel secondo, è necessario riconoscere che ci sono, che devono esserci, altri elementi per la valutazione, che appartengono al presente e non alla sola archeologia.

Proviamo a raccogliere quegli elementi.

Il punto di partenza non può che essere la fede e, da qui, quella realtà estremamente complessa che chiamiamo esperienza spirituale. Non è escluso che per molte persone la realtà della fede corrisponda al fatto di credere nell’esistenza di Dio. In realtà, l’esperienza cristiana vorrebbe essere assai di più: è un assenso reale che conduce a riconoscere che quel Dio di Gesù Cristo non è l’oggetto di un’affermazione, o la deduzione logica di un ragionamento, o l’ipotesi indimostrabile di un discorso. Accade piuttosto che a quell’«oggetto» misterioso, a quel volto che non si mostra, si leghi un’esperienza (appunto) affettiva. E che quell’esperienza, dunque, sia in tutto analoga a quella di una relazione amorosa. Con tutto ciò che comporta l’amore: la ricerca dell’altro, la tensione, la paura di perderlo, la pretesa, la passione, la tenerezza, il bene, la rabbia.

L’esperienza cristiana, come ogni esperienza, nasce dall’intreccio di corpo e Spirito, biografia e cultura. Il che significa che solo all’interno dell’esperienza, potremmo comprendere cosa si prova ad essere cristiani, cioè ad amare Dio. La descrizione dell’esperienza, fatta dall’esterno, o per analogia con altre esperienze simili, è inevitabile. Però è fortemente riduttiva e se ne dovrebbero conoscere almeno i limiti. Cosa si provi ad essere cristiano, lo sa chi prova ad essere cristiano, nel suo singolarissimo modo di essere cristiano. In questa prospettiva, solo «dall’interno» è comprensibile che, per qualcuno, l’amore per Dio richieda una scelta di vita all’insegna di un investimento affettivo che, in positivo, si concentra su quella ricerca, e che pur non considerando in alcun modo il legame affettivo e sessuale come se fosse una realtà negativa, riconosce che, rispetto a quella ricerca, non sarebbe a suo vantaggio. Ad ogni modo, «chi può capire, capisca» (Mt 19,12): per questo parliamo di vocazione.

Il servizio ai fratelli mosso da un autentico amore per l’altro non può essere disgiunto da questa esperienza affettiva. Non è ad essa alternativa e, anzi, diventa la misura della sua qualità: non strumento (giacché l’amore per l’altro è un valore in se stesso), ma luogo in cui l’amore per Dio comunque si realizza.

Il servizio ai fratelli non è semplicemente più «pratico» nel celibato. Piuttosto, nel celibato si rende visibile uno dei modi di voler bene che è di Dio e che il celibe vive a sua volta con Dio.

In questo senso l’intreccio dei due amori (quello per Dio e quello per gli altri) è condizione necessaria per il riconoscimento di un celibato per il Regno. Ove – sia chiaro – quell’intreccio deve essere concretamente visibile. Non può procedere da una mera proclamazione di idee, non può limitarsi ad essere uno slogan ad effetto. In assenza di quell’intreccio e della sua visibilità concreta, non è improbabile che quel celibato non sia più per il Regno o non lo sia ancora. Siccome, tuttavia, di celibato si continuerà a parlare, non è da scartare l’eventualità che, a quel punto, questo sia piuttosto complice di difficoltà relazionali o vulnerabilità evolutive. Il celibato, infatti, può essere perfino vantaggioso per chi proclama il dono di sé, ma nei fatti lo teme; per chi sostiene l’importanza del servizio alle persone, ma concretamente si sottrae al rischio che comporta il fatto di giocarsi, di coinvolgersi, nelle relazioni interpersonali.

Tutto ciò è a sottolineare, ancora una volta, che l’esaltazione del solo celibato può finire per esaltare qualcosa che dal celibato per il Regno, paradossalmente, dista mille miglia.

Nella formazione al celibato e nella disciplina che quella scelta esige, probabilmente – e non parliamo di tempi remoti – ci si è concentrati sul controllo di sé e, ovviamente, in modo particolare, della dimensione sessuale. Da qui, nei comportamenti di abuso, essendo evidente la mancanza di controllo, si è giunti a concludere che quella disciplina altro non era se non una massiccia repressione. La quale, come è noto, ad un certo punto può smettere di funzionare, alla stregua di una valvola difettosa, che anziché regolare un positivo flusso di energia, permette che questa esca in un colpo solo e senza controllo, con risultati perfino devastanti.

Per quanto detto sin qui, invece, non c’è un legame di causa ed effetto tra celibato e comportamenti di abuso. Più probabilmente, invece, un certo modo di intendere e vivere il celibato e i comportamenti di abuso sono il sintomo del medesimo problema: l’invisibilità dell’altro.

Chi commette un abuso, al di là del contenuto sessuale del suo comportamento, sta agendo «senza vedere» la persona di cui sta abusando. Soprattutto in ciò consiste la sua gravità, psicologica e morale.

E pure spirituale: colui che non vede l’altro, difficilmente potrà vedere Dio.

 

(*) Psicologo e psicoterapeuta, docente di psicologia pastorale presso il Seminario Arcivescovile di Milano e l’Università Pontificia Salesiana di Torino, e di introduzione alla psicologia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano.