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Il filosofo Salvatore Natoli NELLA PROVA LA FAMIGLIA NON PUÒ RESTARE SOLA

9 Ottobre 2007

La chiave per superare i momenti difficili, che priamo o poi capitano in tutti i nuclei familiari, è una solida rete di legami, importanti nella quotidianità così come nelle situazioni di malattia e lutto.

di Stefania Cecchetti

Il dolore non è solo un’esperienza negativa, ma anche un’opportunità, per il singolo come per il nucleo familiare. Ne è convinto Salvatore Natoli, docente di Filosofia teoretica all’Università Statale di Milano-Bicocca, che al tema della sofferenza ha dedicato diverse riflessioni (si veda, tra l’altro: L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli 1999).

Quali sono le situazioni di prova che può attraversare una famiglia?
Sono molteplici, ci sono quelle connesse alle cosiddette difficoltà quotidiane, io le chiamerei le “prove da routine”, e quelle relative a situazioni difficili, come una malattia non curabile o un lutto. Le prime sono prove di logoramento: la quotidianità pesa e si accumula, finché poi non si regge. Nella coppia sono molti i conflitti che possono nascere da incidenti quotidiani, per esempio chi deve fare cosa in casa. Queste prove si possono superare attraverso la collaborazione, la lealtà, l’aiuto reciproco, una migliore organizzazione. Ovviamente le cose sono diverse quando ci sono di mezzo sofferenze atroci. È chiaro che la famiglia, quando c’è affetto e amore, tende a stringersi attorno al dolore, accade con una spontaneità quasi animale. Molte volte, invece, il dolore produce scissioni: ci si sente al di sotto, si sente di non farcela e la famiglia mononucleare spesso non regge. C’è bisogno di legami allargati, non necessariamente parentali, anche di semplice amicizia. Ci vuole una rete più larga,

Quali sono le strategie di reazione al dolore più “adeguate”?
Intanto ci sono reazioni spontanee, come il rifiuto. Siamo abituati a pensare al dolore non tanto come una nostra possibilità, ma come qualcosa che viene da fuori e ci colpisce, con conseguenti e comprensibili reazioni di rifiuto e di rabbia. Poi si comprende che il dolore è innanzi tutto universale, connaturato con la nostra fragilità, che ci conduce alla sofferenza. Allora dobbiamo cominciare a convivere con il dolore, cercando di vederne le possibilità. Non sempre il dolore distrugge, sbarra le strade, spesso, quando non è eccessivo e non schiaccia, può invece aprire porte inaspettate. E questo lo vediamo per esempio nelle persone con handicap, molte delle quali riescono a trovare una dimensione di creatività anche alta. Anche in questo caso, siccome l’uomo è relazione, il sistema dei legami è fondamentale. In queste situazioni c’è bisogno non soltanto di aiuto, ma soprattutto di riconoscimento. Nel dolore è importante sentirsi importanti per altri, altrimenti si tende alla dissoluzione. Spesse volte il dolore fa scoprire legami che noi non conoscevamo.

Come i figli possono mettere alla prova la famiglia?
I figli sono possono essere sicuramente una dimensione critica all’interno della famiglia. I figli sono l’avvenire, il futuro. Come farli crescere bene? E allora qui c’è l’antica disputa: quando dire sì, quando no? Naturalmente il no deve essere educativo, non costrittivo. Il giovane è per sua natura spinto dal suo desiderio di saggiare il limite, di andare verso “l’oltre”. Allora ci vuole la mano giusta che sappia guidare, consigliare, collaborare. Senza mai perdere di autorità, che non va confusa con la repressione. I giovani hanno bisogno di figure autorevoli a cui affidarsi. Il genitore è autorevole se è serio nella vita, se ha dignità, se affronta il suo compito educativo con attenzione, se sa essere dolce ma allo stesso tempo severo, cioè se sa insegnare quello che è giusto non per costrizione ma perché sa che è giusto. Certo è un lavoro non semplice e, in una società mobile come quella attuale, anche soggetto a imprevisti: spesso la famiglia si trova a vedere un giovane che torna a casa diverso da come è uscito. Ci vuole molta collaborazione e monitoraggio sui percorsi dei giovani esterni alla famiglia, creando anche alleanze con altre famiglie. Insomma anche in questo caso la rete delle relazioni è fondamentale.

Quanto può essere di conforto la fede nei momenti di sofferenza? E chi non è credente?
Confidare nel Signore, sperare in un aiuto, in un amore invisibile, quando si vive qualcosa che non si comprende, dà un punto di vista superiore. È ovvio che spesso c’è anche un elemento di contesa con Dio, ma la cosa importante è che c’è qualcuno a cui rivolgersi. Giobbe insegna che contendere con qualcuno è sempre meglio che essere soli. Evidentemente le cose sono diverse per il non credente, tuttavia io credo che le differenze non siano poi così marcate: c’è la comune umanità, il sentirsi parte di uno stesso destino. L’uomo, diceva Spinoza, può essere Dio per l’altro uomo. E questo ricorda la lettera di Giovanni in cui si dice che Dio c’è perché è “caritas”. Da questo punto di vista può esserci un terreno prossimo tra chi crede e chi non crede: la comune umanità e il Dio incarnato non sono poi così distanti.