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Sacramenti

La comunione “spirituale”

Una riflessione sul vero significato dell’Eucaristia: istituito nell’ultima cena come suggello della nuova alleanza, si fa fede e carità per giungere a compimento. Non c’è felicità che possa prescindere da Gesù Cristo o desiderio che non ne sia l’aspirazione

di Inos BIFFI

27 Aprile 2014

1. Nell’ultima Cena Gesù spezza il pane e lo porge agli apostoli da mangiare come suo Corpo offerto in sacrificio e fa passare tra loro il calice del vino perché lo bevano come suo Sangue effuso a suggello della nuova alleanza per la remissione dei peccati.

Il significato di questo convito si trova ampiamente illustrato e approfondito nella grande “teologia” e catechesi eucaristica del capitolo vi del Vangelo di Giovanni.

«Io sono il pane vivo disceso dal cielo – vi afferma Gesù –. Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Colui che mangia di me, vivrà per me» (Gv 6, 51-57, passim). È il frutto dell’Eucaristia: la comunione di vita con Gesù Cristo, in una vicendevole “immanenza”.

Ma occorre comprendere esattamente che cosa significhi “mangiare” il Corpo e “bere” il Sangue di Cristo. Con questo atto non viene materialmente divorata la Carne del Signore e consumato il suo Sangue. E infatti meno appropriatamente, nella professione di Fede prescritta nel 1059 a Berengario di Tours, si parlava del Corpo di Cristo che «veramente e sensibilmente, e non solo sacramentalmente, viene toccato e spezzato dalle mani del sacerdote, e masticato dai denti dei fedeli». Tommaso d’Aquino chiarirà che Cristo è realmente presente nell’Eucaristia, ma nella modalità della “sostanza” (Summa Theologiae, iii, 75, 1, c; 76, 1, 3m). Cristo – egli scrive – è presente «spiritualmente» cioè «invisibilmente e in virtù dello Spirito» (Summa Theologiae, iii, 75, 1, 1m) e «viene mangiato con una modalità spirituale e divina» (Super Ioannem, vi, lect. viii, iv, n. 992).

Nel contesto eucaristico il «mangiare» e il «bere» assumono, di conseguenza, un’accezione affatto unica e singolare: significano, cioè, una comunione “spirituale”, intendendo “spirituale” non come alternativo ma inclusivo del sacramento, che veramente contiene il Corpo e il Sangue del Signore.

La conseguenza è evidente: solo una comunione in questo senso “spirituale” è destinata a “riuscire”, mentre una comunione solamente “materiale”, o “carnale”, per quanto spesso ripetuta, non può essere efficace.

2. Va, però, anzitutto rilevato che il principio di questa comunione è l’amore offerto da Cristo, ossia il dono che egli fa della propria vita, proseguendo la “tradizione” della Croce. «Nel sacramento – insegna ancora Tommaso –, mediante la verità del suo corpo e del suo sangue, egli ci congiunge a sé (nos sibi coniungit)» (Summa Theologiae, iii,75, 1, c).

Ecco perché, sempre secondo l’Angelico, l’Eucaristia appare «il segno della più grande carità (maximae caritatis signum)» e dell’«unione più familiare (unio familiaris)» di Cristo con noi (ibid.), col risultato di una inesione di vita: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue – sono le parole di Gesù, già sopra citate – rimane in me e io in lui. Colui che mangia di me, vivrà per me».

Ma, proprio perché comunione «spirituale», occorre in chi riceve l’Eucaristia la corrispondenza della fede e della carità, che, per l’opera dello Spirito Santo, dispongono il credente a ricevere il dono che Cristo fa della sua vita e della vita del Padre suo. Se manca questa adesione e intima accoglienza intima, il sacramento è destinato a non riuscire. L’indifferenza e la diffidenza rendono vana e inefficace la pura manducazione “carnale” del Corpo di Gesù.

3. San Tommaso insiste sulla necessità che la comunione sacramentale si risolva in comunione spirituale.

Ci sono, infatti, due modi di ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo, l’uno puramente sacramentale, l’altro anche spirituale. Col primo si riceve «solo il sacramento, senza il suo effetto (solum sacramentum sine effectu eius)»; col secondo si assume il sacramento e la sua realtà profonda, la sua res: allora abbiamo la «manducazione spirituale nella quale si percepisce l’effetto di questo sacramento, consistente nell’unione con Cristo attraverso la fede e la carità»(ibid., iii, 80, 1, c). Diversamente, avremmo una comunione imperfetta e incompiuta: l’intenzione del sacramento resterebbe come innaturalmente monca e sospesa.

4. D’altra parte, quest’ultima è possibile anche attraverso il suo desiderio: «Ci sono alcuni – dichiara ancor Tommaso – che mangiano questo sacramento spiritualmente (manducant spiritualiter hoc sacramentum), prima di assumerlo sacramentalmente». Avviene – e vale anche per il Battesimo – quando ci sia il desiderio di ricevere l’Eucaristia (desiderium sumendi ipsum sacramentum); anche già prima della sua istituzione era però possibile comunicarsi ad essa spiritualmente, secondo la dottrina di Paolo sui Padri che hanno mangiato il «cibo spirituale» e bevuto la «bevanda spirituale» (1 Cor 10, 2 ss.) (Summa Theologiae, iii, 80, 1, 3m).

Certo, il Dottore angelico ha un concetto forte di desiderio, ben altro che una vaga e superficiale aspirazione. Ecco perché può affermare: «Tutti sono tenuti a mangiare almeno spiritualmente (omnes tenentur saltem spiritualiter manducare), dal momento che questo significa essere incorporati a Cristo. Senza il voto di ricevere questo sacramento non ci può essere salvezza per l’uomo (sine voto percipiendi hoc sacramentum non potest homini esse salus)» (ibid., 11, c).

5. Tommaso si chiede persino se gli angeli assumano spiritualmente questo sacramento e risponde che vi è una «manducazione spirituale (manducare spiritualiter)» non mediata dal sacramento e dalla fede e consistente nell’unione con Cristo attraverso la carità perfetta e la sua visione immediata: e questa è la manducazione spirituale degli angeli, non la nostra: «noi un pane simile lo aspettiamo nella patria» (ibid., 2, c).

Ma se è vero che gli angeli spiritualmente mangiano Cristo – etsi spiritualiter manducent Christum – la manducazione spirituale che loro compete non è quella che avviene col desiderio del sacramento, com’è per noi.

Senza dubbio «alla comunità del Corpo mistico appartengono sia gli uomini sia gli angeli», ma questi «nell’aperta visione», quelli invece «nella fede», «che vede la verità “come in uno specchio e in maniera confusa”» e a cui sono consoni i sacramenti (ibid., 2m). Dove c’è la visione non c’è la mediazione della fede e del sacramento e quindi una manducazione spirituale di Cristo che avvenga col desiderio dell’Eucaristia.

6. Ma un’altra considerazione di Tommaso è particolarmente originale e illuminante, quella in cui attribuisce alla manducazione spirituale di Cristo fruita dagli angeli la funzione di modello rispetto alla nostra manducazione sacramentale. La comunione eucaristica sacramentale – egli osserva – è ordinata, come a fine, alla comunione celeste con Cristo, già goduta dagli angeli.

Ecco, allora, che «la manducazione di Cristo con la quale lo assumiamo in questo sacramento in certo modo deriva dalla manducazione di Cristo di cui beneficiano gli angeli in patria. Per ciò si dice che l’uomo mangia “il pane degli angeli”» (ibid., 3m): questo, infatti, anzitutto e originariamente, riguarda gli angeli, che ne fruiscono secondo il suo aspetto proprio; è invece derivatamente pane degli uomini, che ricevono Cristo nella forma del sacramento» (ibid., 2, 1m). Quaggiù gli uomini colgono la presenza di Cristo mediante la fede; gli angeli lo avvertono presente con la visione immediata (ibid.).

Un primo punto interessante di questa dottrina è la natura cristologica della beatitudine degli angeli e quindi la loro aspirazione a lui: anch’essi sono saziati e appagati dalla visione di Gesù Cristo. Cristo è il Pane di tutti. Non vi è felicità che possa prescindere da lui o desiderio che non ne sia l’aspirazione.

Un secondo punto è il carattere transitorio del sacramento eucaristico, che contiene realmente il Corpo e il Sangue di Cristo, ma come in uno stato di provvisorietà e di precarietà, «fin che venga» (1 Cor 11, 26), in attesa cioè che la realtà del Signore e la comunione con lui (res del sacramento), da celate divengano manifeste, convertendosi in esauriente visione.