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Intervista

La psicologa: «Impariamo fin da piccoli»

Rossella Semplici, tra i relatori del convegno in programma il 30 luglio a Barzio: «Il perdono non è qualcosa di innato, si deve imparare. È impossibile pensare che in famiglia non ci siano conflitti, importante è gestirli perché non diventino distruttivi»

di Luisa BOVE

10 Luglio 2016

«A perdonare si impara. Non è qualcosa di innato». A dirlo è la psicologa Rossella Semplici, che interverrà al convegno di Barzio il 30 luglio con una relazione dal titolo «Palestra di perdono “per piccoli e grandi”». La capacità di perdonare, spiega, «viene dall’esperienza che facciamo fin da piccoli e tra piccoli: pensiamo alle dinamiche tra fratelli, all’asilo o alle scuole elementari». E aggiunge: «In una famiglia ci sono contrasti e litigi, è impossibile pensare che non ci siano conflitti, ma quello che è importante è la gestione, perché il conflitto non deve essere distruttivo».

E qual è il primo passo da compiere?
Ammettere di aver fatto qualcosa che non va bene, oppure far capire all’altro che non abbiamo fatto niente e che ha interpretato male. La situazione quindi è molto dinamica. E poi il perdono non è un fatto immediato, ci vuole tempo, a seconda della gravità dell’ingiustizia subita. Un tempo non solo personale, ma anche in proporzione a quanto successo.

Certo il fattore-tempo è fondamentale, ma non si può rimandare all’infinito…
Però ci possono essere casi in cui non si arriva a perdonare, e questo ha ripercussioni a livello di salute: continuare a rimuginare o tornare sulla stessa situazione crea stress, con conseguenze sia fisiche, sia psichiche. Certo il perdono non si può imporre, ma almeno si possono aprire strade nuove. Anche se è difficilissimo, si tratta di mettersi nei panni di chi ci ha offeso per capire quali sono le motivazioni, senza arrivare a dire: «L’ha fatto e non capiva quello che faceva». Questo è un altro discorso, perché nel momento in cui sminuisco, prevale il mio perdono; invece devo anche assumere e sentire l’attacco alla mia persona.

La cultura di oggi rende forse più difficile perdonare rispetto a una volta?
È più difficile perché siamo in una situazione di attacco dei valori, come la solidarietà o l’accoglienza del diverso, e la società propone modelli come l’arrivismo, l’individualismo, l’emergere… Insomma, emergono tutti quegli elementi della “società liquida” di Bauman, con tratti narcisistici anche tra persone che non hanno patologia, ma in cui l’io è comunque al centro. E se c’è un io troppo grande il dialogo e l’empatia con l’altro diventano più complicati. Inoltre c’è la tendenza dei genitori a proteggere e iper-giustificare i figli, non lasciando ai bambini la possibilità di sperimentarsi da soli. Se vengono sempre difesi dall’adulto, come fanno a imparare a confrontarsi e a non rispondere con una sberla o un calcio?

I conflitti in famiglia creano anche ferite profonde. Crescono rabbia, rancore, desiderio di vendetta… Si deve correre prima ai ripari?
Non sempre è possibile, però: per esempio, di fronte a separazioni o divorzi, spesso rancorosi, difficilmente le situazioni si risanano, perché si creano schieramenti, torti, ragioni, e la famiglia si spacca. Poi ci sono vissuti di figli – in famiglie anche rimaste unite, ma dove spesso a volte si scatenano discussioni legate all’eredità, magari anche piccola (piatti, ceramiche e tazzine) – in cui riemergono conflitti taciuti («mamma e papà hanno voluto più bene a te», «tu hai potuto studiare, hai potuto fare carriera…») che non si è stati capaci di esprimere.

A quali condizioni è possibile perdonare?
Intanto con un’educazione alle emozioni. Purtroppo la nostra società tende a considerare soprattutto l’aspetto cognitivo, dell’intelligenza, trascurando la rabbia, il risentimento, la gioia, il distanziamento… Occorre dare spazio all’aspetto emotivo, all’affettività e alla conoscenza di noi stessi, perché solo se riconosco i miei limiti riesco a perdonare. Di fronte a situazioni troppo faticose devo saper chiedere aiuto, altrimenti accetto di restare rancoroso.