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Magatti

«La società ha bisogno del perdono»

La riflessione del sociologo dell’Università Cattolica, dopo la pubblicazione
della lettera del Vicario generale per la Quaresima

di Pino NARDI

18 Febbraio 2013

La chiusura nel proprio individualismo e il relativismo morale portano all’abbandono del perdono per la caduta verticale di consapevolezza del peccato e quindi della richiesta di riconciliazione. È la cultura dominante di derivazione radicale che influenza i comportamenti individuali, ma che a livello sociale si traduce nella chiusura alla solidarietà. E poi non possiamo pretendere che le classi dirigenti e gli amministratori pubblici abbiano una coscienza morale che è stata minata alle fondamenta. Il sociologo dell’Università Cattolica, Mauro Magatti, riflette a partire dalla lettera che il Vicario generale, monsignor Mario Delpini, ha scritto alla Diocesi per il tempo di Quaresima.

Magatti, perché in una società individualista si fa fatica a capire la necessità del perdono e della riconciliazione?

«Due le riflessioni. La prima: dare il perdono e richiederlo, e ottenerlo, presuppone l’idea che ci sia qualcosa che ha bisogno di essere emendato. Ci sono spinte culturali che arrivano a negare questa esigenza: quando il relativismo – quello che chiamo nichilismo contemporaneo – diventa radicale alla fine non c’è più bisogno di perdono, perché non c’è più nessun male da perdonare. Questo non è ancora vero di fronte a ciò che consideriamo inaccettabile come l’omicidio piuttosto che la pedofilia. Alcuni casi estremi mantengono questo carattere, tuttavia ci sono molte nostre relazioni in cui l’elemento del perdono sparisce perché si perde la coscienza morale, tutto diventa un’opzione, una possibilità, una sorta di normalità. Questa è una grave perdita».

E la seconda riflessione?

«Dall’altra parte, in realtà, questa è una cultura che per andare avanti avrebbe molto bisogno del perdono. Essendo una società di persone, tutti abbiamo consapevolezza di noi stessi, della nostra libertà, facciamo soffrire gli altri e gli altri fanno soffrire noi. La libertà capita spesso di essere causa del dolore. Quindi avremmo tutti bisogno di perdonare e di essere perdonati, anche perché molte relazioni libere possono sopravvivere proprio se si fa uso del perdono. Saper perdonare e chiedere perdono, e quindi accettare anche l’altro, è un antidoto fondamentale».

Monsignor Delpini scrive che «il digiuno gradito a Dio è operare la giustizia e soccorrere i bisognosi». Quindi una riproposizione della dimensione della giustizia e della solidarietà…

«Quello che dicevo riguarda il piano interpersonale, ma la stessa difficoltà e urgenza del perdono la si può vedere anche sul piano sociale. Non è un caso che ci troviamo con una società ingiusta, poco attenta ai bisognosi, che si richiude in se stessa. Laddove il senso morale si restringe è chiaro che anche la somma di tutti i comportamenti individualistici in modo radicale porta alla perdita di un senso morale più alto (il rapporto con Dio, con la creazione e così via), ma anche alla perdita della solidarietà sociale. I due aspetti sono strettamente correlati: relazioni più fragili, instabili e indifferenti producono una società meno solidale e diseguale».

Un altro aspetto che emerge dalla lettera è la richiesta di pentimento a chi sfrutta il lavoro altrui, chi sperpera il denaro pubblico, chi cerca un ingiusto vantaggio personale nell’esercizio di un servizio alla comunità. Quindi in Quaresima la Chiesa ambrosiana rilancia il tema della moralità, dell’etica pubblica, coglie i segni di questi tempi che pongono all’attenzione dell’opinione pubblica esempi diversi…

«In questo momento tutti vediamo l’urgenza di questo richiamo per i tanti comportamenti non solo di amministratori pubblici, ma anche di classe dirigente in generale. Non dimentichiamo infatti che ci sono molti scandali che coinvolgono diversi ambienti. Quello che spesso viene sottovalutato, non colto, rimosso, è che c’è una continuità fra un contesto culturale di fondo, un individualismo diffuso o l’indebolimento del senso morale, e questa crisi delle classi dirigenti e degli amministratori pubblici. È naturalmente più grave che un amministratore pubblico usi in maniera distorta le risorse di tutti, ma in un certo senso esprime su quel piano la cultura dominante di perdita del senso morale. Giustamente ci scandalizziamo dell’amministratore pubblico, ma è difficile averne retti quando la cultura in cui viviamo non è più retta. Possiamo sempre augurarcelo, però diventa oggettivamente difficile».