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Anniversario

Rivista del Clero, fedele alla tradizione, attenta al nuovo

Una approfondita e qualificata riflessione a più voci su presente e futuro del presbiterato nel seminario online promosso per il centenario della testata

di Annamaria BRACCINI

10 Novembre 2020

Cento anni e non sentirli. Anzi, tutti da vivere – magari altri 100 -, guardando al futuro, nella fedeltà alle radici dell’ispirazione iniziale. Il convegno a più voci qualificate promosso dall’Università Cattolica, da “Vita e Pensiero” e dall’Arcidiocesi, per celebrare il secolo della Rivista del Clero Italiano, (necessariamente on line, ma in origine previsto molto più ampio e nella doppia sede di Milano e Roma) è questo: riflettere insieme, partendo anche da esperienze personali, sulla Chiesa, sui cambiamenti in atto, sul ruolo e la figura del presbitero. 

Rinnovamento nella formazione

Monsignor Claudio Giuliodori, assistente generale dell’Università Cattolica che pubblica la Rivista tramite “Vita e Pensiero”, cita anzitutto don Bruno Maggioni, storico direttore della pubblicazione (dal 1987), scomparso nei giorni scorsi: «Figura straordinaria per la sua competenza biblica e persona dedita alla vita ecclesiale, sempre disponibile con grande acume umano e pastorale». E prosegue: «La Rivista di Filosofia Neoscolastica, “Vita e Pensiero” e la nostra Rivista, nate tutte nello stesso torno di anni, sono l’humus culturale nel cui contesto emerge l’Università (1921). Gemelli, Olgiati e don Luigi Vigna, con il sostegno di un’attenta amministratrice come Armida Barelli, hanno dato una grande spinta e creato le condizione per un rinnovamento nella formazione del prete. Basti pensare al Direttorio per il Ministero e la Vita dei Presbiteri, promulgato dalla Congregazione per il Clero l’11 febbraio 2013, nel quale confluiscono le istanze più belle e significative della Rivista».

D’altra parte, già il titolo dell’incontro – «Rimessi in viaggio», dal titolo di un fortunato volume di Giuliano Zanchi, anche redattore della Rivista – definisce chiaramente l’orizzonte di riferimento della discussione che, dopo l’intervento di Aurelio Mottola, vede, in collegamento da Madrid, Pablo d’Ors, sacerdote e scrittore, membro del Pontificio Consiglio per la Cultura, impegnato nella comunicazione, sul tema «In principio l’entusiasmo. L’esperienza fondante della chiamata».

Tornare alle radici

«Pensiero e azione, passione contemplazione»: questi i punti cardine della riflessione. «Occorre la passione degli inizi di Cristo, che si mette in fila con gli altri, con i peccatori, in una folla. Gesù, per il suo battesimo, entra nell’acqua e si abbassa. L’umiltà è l’ineludibile credenziale della verità, sennò si rimane solo nella dottrina. Anche noi abbiamo bisogno urgente di un battesimo, di immergerci, di inginocchiarci davanti al Maestro. Come preti dobbiamo tornare alle radici che stanno nelle acque del Giordano. Non avere Padri e non sentirci figli è la radice della sfiducia».

«Fare bene le cose ci predispone alla vita spirituale, mentre ci siamo legati troppo al mondo intellettuale e emozionale e questa può essere la ragione della crisi del Cristianesimo. La passione degli inizi, invece, non ha dubbi, non ha domande. Il punto è che bisogna essere discepoli, con la voglia di conoscere la vita e la verità, attraverso domande che nascono da una reale inquietudine». Ma come mantenere viva in noi la passione degli inizi, dei discepoli? Come preservare l’entusiasmo, riconoscendo i Maestri? «Comprendendo il mistero della nascita e del momento presente, astraendo dai singoli eventi. Nascere di nuovo è lo stesso che vivere ogni istante di quella novità continua che è la vita». Insomma, ci vogliono molti anni per essere veramente giovani, «rinascendo nell’acqua e nello Spirito a cui Gesù ci chiama qui e ora. L’entusiasmo non è la caratteristica della gioventù, ma della sapienza». 

L’annuncio nella vita

Parole cui fa eco Luciano Manicardi, monaco, priore della Comunità di Bose, che approfondisce «Nella stagioni della vita custodire la promessa degli inizi». L’immagine di partenza è l’abitare: «Abitare situazioni che richiedono il cambiamento, abitare il ministero nelle condizioni sempre nuove in cui viene vissuto, abitare la fede e la Chiesa. E anche abitare l’inatteso, come il ministero ai tempi del Covid 19. Questo richiede un dinamismo incessante, tra fedeltà e infedeltà. Al contrario, il demone della facilità abita l’abitudine che può arrivare a bloccare i cammini, rischiando di generare in noi pigrizia e distanziandoci dalla vita. Quante volte vediamo preti stanchi?»

E poi ci sono le abitudini che diventano dipendenze. «Oggi i preti che vogliano annunciare il Vangelo debbono narrare l’umanità di Cristo. Al presbitero è chiesto di scrivere il Vangelo con la propria vita: occorre trovare nell’umanità del Signore alimento per la propria umanità, con immaginazione, creatività e coraggio. Vedere il non ancora, trovare domande e abbozzando risposte mediate dalla realtà. Questo è un uomo che tenta davvero di nascere a se stesso. Il concreto esercizio del presbiterato è messo alla prova dalla realtà: occorre essere preparati perché il compito della realtà è di formarci, offrendo durezze. Si tratta di abitare la crisi, senza fuggire da sé. Tutto questo fa parte del cammino dell’uomo di Dio. Bisogna sapere scegliere i “sì” e “no” da dire: così, nelle difficoltà, si dilata la nostra umanità. Riconosciamo che siamo umani accogliendo le nostre e altrui debolezze, sopportando i pesi della crisi insieme».

Comprendere il limite

Teresa Bartolomei, laica, madre di tre figli, che insegna alla Facoltà di Teologia dell’Università Cattolica di Lisbona, è collegata dalla capitale portoghese. A lei è affidato il compito di confrontarsi con il tema «Sensibili all’umano. L’attenzione alla cultura comune nell’esercizio del Ministero». Parte dalla metafora degli occhiali, anche attraverso brani letterari: «Nella casa del Padre ci sono molti modi di abitare. La sofferenza è luogo fondamentale della verità. Oggi siamo incapaci di riproporre una parola forte e illuminata sulla rimozione della sofferenza. La cognizione del dolore, invece, è generatrice di compassione che è luogo della verità. Pensiamo alla terribile tragedia della pandemia nella quale ci troviamo. Il rischio è di vivere in una sorta di bolla, guardando solo immagini che passano in televisione». E, ancora: «ci vuole la tenerezza che è elemento di contemplazione necessaria per un’azione sana. La tenerezza ci apre gli occhi sulla condizione della vulnerabilità, come condizione esistenziale che è parte del nostro stare al mondo. Dobbiamo andare a scuola di finito, comprendendo il senso profondo della condizione umana».

Un grande cantiere

Infine, il vicario episcopale, monsignor Luca Bressan, si sofferma su «Le priorità nella cura pastorale. La fatica di discernere l’essenziale oggi»: «Vogliamo solo tentare l’umiltà di un cammino difficile perché siamo in un cambiamento di cui è importate distinguere le forme»

«Ci sono transizioni da interpretare. Spesso ci focalizziamo sulla mancanza di preti, ma sono scesi molto anche i battesimi. Come preti siamo dentro questo cambiamento di corpo. Tra noi abitiamo diverse anime. Con il Concilio si apre un grande cantiere che presenta la figura del presbitero come luogo su cui lavorare». Lavoro, peraltro, già svolto con la cifra della carità pastorale su cui ricostruire la figura del prete. Occorre tornare a declinare la fede, anche attraverso le articolazioni sul territorio, come le parrocchie che rischiano di essere solo erogatrici di servizi. Questo è un ulteriore laboratorio. Da vicario episcopale sto imparando che la riforma della Chiesa la attua lo Spirito e noi dobbiamo solo metterci in ascolto, come abbiamo tentato di fare con il Sinodo minore “Chiesa dalle Genti”».

E poi, le grammatiche: «Abbiamo bisogno di una grammatica ascetica, di scrivere stili di vita con il ruolo nevralgico degli affetti». Torna il ruolo forte della metafora pastorale. «Dobbiamo tornare a chiederci come siamo legati al gregge e come lo riconosciamo».

Secondo nodo, il corpo. «C’è bisogno di tornare a unificare, a sentirci un corpo, non da interpretare in modo organizzativo, ma come realtà sacramentale». Qui, particolarmente promettente è la logica dell’affidamento e del prendersi cura come categorie teologiche.

Terzo, la missione: «Da questo punto di vista, la metropoli può farci capire le grammatiche per la missione con la carità come legame che inventa spazi di incontro e inclusione. C’è bisogno di un laboratorio come è stata la Rivista in questi anni, per trovare energia», conclude monsignor Bressan, portando gli auguri dell’Arcivescovo.

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